Il caso di specie riguarda un dipendente licenziato in data 25 settembre 2018. Nello specifico, il lavoratore si era rifiutato di svolgere attività lavorativa, per un periodo di quattro giorni consecutivi, adducendo che non rientrasse tra le sue mansioni l’attività di autista, dal momento che egli era inquadrato come operatore ecologico. Solo in seguito presentava un certificato medico, dal quale risultava un problema fisico che non gli permetteva di svolgere la detta prestazione lavorativa.
La Corte d’Appello di Catanzaro aveva rigettato l’impugnazione del licenziamento: secondo il giudice territoriale, infatti, era irrilevante il dolore lamentato dal lavoratore e addotto come giustificazione al rifiuto di svolgere le mansioni in contestazione. Infatti, la sintomatologia lamentata risultava in contrasto con le dichiarazioni fatte dal lavoratore all’interno dei fogli di servizio. Inoltre, secondo quanto stabilito dal contratto collettivo, la guida di veicoli rientrava nelle mansioni previste per la sua posizione.
Il lavoratore, quindi, presentava ricorso in Cassazione, sostenendo la violazione degli artt. 2104 c.c. e 73, comma 2, del C.C.N.L., oltre alla nullità della sentenza per ultrapetizione. Secondo il ricorrente, infatti, il giudice non poteva estendere i motivi di licenziamento oltre quanto previsto dal contratto collettivo.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando la decisione della Corte territoriale. Secondo i giudici di legittimità, infatti, le ipotesi di giusta causa e giustificato motivo nei contratti collettivi sono meramente esemplificative. È compito del giudice effettuare una valutazione in concreto, per determinare la gravità del comportamento e la proporzionalità della sanzione applicata nei confronti del lavoratore.
Ebbene, nel caso di specie, secondo la Cassazione il rifiuto reiterato e ingiustificato di prestare l’attività lavorativa richiesta costituisce motivo sufficiente per giustificare il licenziamento, a prescindere da quanto previsto all’interno del contratto collettivo.
La sentenza della Suprema Corte ha una grande importanza nel panorama giuridico lavoristico. Essa, infatti, evidenzia la necessità di effettuare una corretta interpretazione delle clausole contrattuali e delle norme legali previste in materia di licenziamenti individuali. Questo comporta che sia i giudici sia i contraenti (datori di lavoro, lavoratori, sindacati ecc.) sono tenuti ad effettuare una attenta valutazione di ogni caso specifico, al fine di evitare di applicare erroneamente, e per ragioni di natura prettamente formale, alcune fattispecie contrattuali.
La sentenza, inoltre, si pronuncia su un tema particolarmente rilevante in materia giuslavoristica, ovvero il rapporto tra le mansioni assegnate e la qualifica contrattuale del lavoratore. La decisione ribadisce l’obbligo per il lavoratore di svolgere i compiti affidatigli dal datore di lavoro, salvo che gli stessi non rientrino nelle competenze richieste dalla sua qualifica e dal suo inquadramento. Infatti, solo qualora il datore di lavoro richieda al proprio dipendente lo svolgimento di prestazioni esorbitanti rispetto alla propria mansione, il lavoratore potrà legittimamente rifiutarsi di assolvere alle richieste del proprio datore di lavoro. Diversamente, ogni rifiuto ingiustificato e reiterato darà adito a licenziamento per giustificato motivo.
In tale quadro normativo, la Cassazione evidenzia l’importanza e la centralità del ruolo attribuito al giudice. È compito infatti dell’interprete intervenire oltre le specifiche previsioni contrattuali, con lo scopo di garantire un equilibrio tra i diritti e i doveri delle parti nell’ambito del rapporto lavorativo.
La decisione in commento, inoltre, si pone in un’ottica di rafforzamento della posizione contrattuale dei datori di lavoro, i quali risultano maggiormente tutelati nelle attività di contrasto verso comportamenti inadempienti da parte dei lavoratori. La sentenza però, al contempo, non può essere interpretata come un avallo a licenziamenti arbitrari o ingiustificati.
È bene, infatti, tenere a mente che i lavoratori potranno sempre rifiutarsi di svolgere mansioni che non rientrano nella propria qualifica o che non siano previste dal contratto. In questi casi, l’eventuale licenziamento ad opera del datore di lavoro sarebbe illegittimo.
La sentenza cerca un equilibrio tra le esigenze imprenditoriali e la tutela dei diritti dei lavoratori. Essa quindi riconosce, al contempo, sia la necessità di garantire, da parte dei lavoratori, una certa flessibilità nello svolgimento dell’attività lavorativa, nonché una maggiore collaborazione quando necessario, sia l’obbligo, da parte del datore di lavoro, di rispettare le competenze professionali di ciascun dipendente, evitandone lo sfruttamento o l’impiego per prestazioni non rientranti nella sua qualifica professionale.