La Cassazione, con la sentenza n. 17008 del 2025, ha affermato che nel nostro ordinamento non esiste un principio che imponga, in via automatica, la parità di retribuzione o di livello contrattuale tra lavoratori che svolgono mansioni identiche, a meno che la differenza sia motivata da una discriminazione vietata dalla legge.
In pratica, un dipendente che si accorge di avere, in busta paga, uno stipendio inferiore rispetto a un collega che svolge il suo stesso lavoro non potrà automaticamente vantare un diritto al medesimo importo o al medesimo inquadramento. Ciò non significa che qualunque differenza sia legittima: occorre sempre che la retribuzione sia congrua rispetto alla quantità e qualità del lavoro svolto (art. 36 Cost.) e che non vi siano motivi discriminatori per il minor trattamento economico riservato al dipendente (genere, età, razza, opinioni politiche, ecc.).
Nel caso concreto, il lavoratore lamentava di essere stato inquadrato in una qualifica inferiore e chiedeva, pertanto, il riconoscimento di una qualifica superiore, della relativa differenza retributiva maturata e del risarcimento del danno. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno respinto la domanda, e la Cassazione ha confermato tale esito: la semplice somiglianza delle mansioni non basta a giustificare il passaggio di livello richiesto.
La sentenza precisa che sono le “qualifiche” (cioè, l’inquadramento contrattuale, la posizione giuridica e le mansioni riconosciute contrattualmente) ad avere rilievo, e che il fatto che le mansioni svolte siano analoghe a quelle affidate in passato a soggetti con qualifica superiore non determina, di per sé, “l’automatismo” del riconoscimento del grado più elevato.
In pratica, un dipendente che si accorge di avere, in busta paga, uno stipendio inferiore rispetto a un collega che svolge il suo stesso lavoro non potrà automaticamente vantare un diritto al medesimo importo o al medesimo inquadramento. Ciò non significa che qualunque differenza sia legittima: occorre sempre che la retribuzione sia congrua rispetto alla quantità e qualità del lavoro svolto (art. 36 Cost.) e che non vi siano motivi discriminatori per il minor trattamento economico riservato al dipendente (genere, età, razza, opinioni politiche, ecc.).
Nel caso concreto, il lavoratore lamentava di essere stato inquadrato in una qualifica inferiore e chiedeva, pertanto, il riconoscimento di una qualifica superiore, della relativa differenza retributiva maturata e del risarcimento del danno. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno respinto la domanda, e la Cassazione ha confermato tale esito: la semplice somiglianza delle mansioni non basta a giustificare il passaggio di livello richiesto.
La sentenza precisa che sono le “qualifiche” (cioè, l’inquadramento contrattuale, la posizione giuridica e le mansioni riconosciute contrattualmente) ad avere rilievo, e che il fatto che le mansioni svolte siano analoghe a quelle affidate in passato a soggetti con qualifica superiore non determina, di per sé, “l’automatismo” del riconoscimento del grado più elevato.
Dal punto di vista giuridico, la ratio della decisione è chiara. Lo Stato italiano tutela il lavoro (la Costituzione, al cit. art. 36, garantisce che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”), ma questo non equivale a obbligare il datore a pagare a tutti i lavoratori che svolgono identiche mansioni lo stesso stipendio o grado contrattuale.
La libertà del datore di lavoro di modulare la retribuzione trova dunque un suo spazio, purché si rispettino due condizioni fondamentali: la corrispondenza, cioè il legame tra mansioni effettivamente svolte e inquadramento contrattuale (art. 2103 c.c.); dall’altro lato, l’assenza di discriminazione illegittima, cioè differenze retributive fondate su sesso, razza, religione, opinioni politiche, iscrizione sindacale, età o altro status protetto dalla legge e dalla normativa europea.
La differenza è dunque ammissibile se si basa su criteri legittimi: può trattarsi di anzianità, esperienza professionale, livello di responsabilità, orario, presenza di un premio di risultato, qualifica assunta, oppure altri elementi contrattuali o aziendali che giustifichino un trattamento differente. In assenza di questi elementi, oppure se la differenza è fondata su motivi discriminatori, la differenza diventa illegittima.
Nel caso in esame, la Cassazione ha ritenuto che il lavoratore non avesse dimostrato in modo adeguato che l’inquadramento era sfasato rispetto alle mansioni svolte e non avesse individuato specificatamente il contenuto concreto delle mansioni.
Un ulteriore punto da considerare riguarda la normativa europea più recente sulla pari retribuzione e sulla trasparenza salariale. In particolare, la direttiva UE 2023/970, recepita in Italia nel 2025, mira a garantire che non vi siano disparità salariali basate sul genere e a promuovere maggiore trasparenza: le aziende devono dare informazioni sulle retribuzioni, i lavoratori devono poter accedere ai dati salariali medi per categoria e livello, e sono previste sanzioni in ipotesi di discriminazioni salariali di genere.
Tuttavia, ed è importante sottolinearlo, questa direttiva non stabilisce un principio generale che imponga la parità retributiva fra tutti i lavoratori che svolgono le stesse mansioni ma, piuttosto, interviene quando la disparità è fondata sul genere o su altri stati protetti. In questo senso non è in contraddizione con la decisione della Cassazione, che invece si è concentrata su rapporti di lavoro aziendali, privi (in quel caso) di discriminazioni fondate su genere o altro status protetto.
La libertà del datore di lavoro di modulare la retribuzione trova dunque un suo spazio, purché si rispettino due condizioni fondamentali: la corrispondenza, cioè il legame tra mansioni effettivamente svolte e inquadramento contrattuale (art. 2103 c.c.); dall’altro lato, l’assenza di discriminazione illegittima, cioè differenze retributive fondate su sesso, razza, religione, opinioni politiche, iscrizione sindacale, età o altro status protetto dalla legge e dalla normativa europea.
La differenza è dunque ammissibile se si basa su criteri legittimi: può trattarsi di anzianità, esperienza professionale, livello di responsabilità, orario, presenza di un premio di risultato, qualifica assunta, oppure altri elementi contrattuali o aziendali che giustifichino un trattamento differente. In assenza di questi elementi, oppure se la differenza è fondata su motivi discriminatori, la differenza diventa illegittima.
Nel caso in esame, la Cassazione ha ritenuto che il lavoratore non avesse dimostrato in modo adeguato che l’inquadramento era sfasato rispetto alle mansioni svolte e non avesse individuato specificatamente il contenuto concreto delle mansioni.
Un ulteriore punto da considerare riguarda la normativa europea più recente sulla pari retribuzione e sulla trasparenza salariale. In particolare, la direttiva UE 2023/970, recepita in Italia nel 2025, mira a garantire che non vi siano disparità salariali basate sul genere e a promuovere maggiore trasparenza: le aziende devono dare informazioni sulle retribuzioni, i lavoratori devono poter accedere ai dati salariali medi per categoria e livello, e sono previste sanzioni in ipotesi di discriminazioni salariali di genere.
Tuttavia, ed è importante sottolinearlo, questa direttiva non stabilisce un principio generale che imponga la parità retributiva fra tutti i lavoratori che svolgono le stesse mansioni ma, piuttosto, interviene quando la disparità è fondata sul genere o su altri stati protetti. In questo senso non è in contraddizione con la decisione della Cassazione, che invece si è concentrata su rapporti di lavoro aziendali, privi (in quel caso) di discriminazioni fondate su genere o altro status protetto.