Il caso sottoposto all’esame della Cassazione ha visto come protagonista un lavoratore dipendente, che aveva agito in giudizio nei confronti della società datrice di lavoro, al fine di ottenere l’annullamento del licenziamento per giusta causa che gli era stato intimato.
Il Tribunale di Roma aveva solo parzialmente accolto la domanda del lavoratore, disponendo la conversione del licenziamento stesso in “licenziamento per giustificato motivo soggettivo”.
La sentenza era stata confermata dalla Corte d’appello di Roma, la quale aveva evidenziato come al lavoratore fosse stato contestato “di aver compiuto una lunghissima serie di telefonate verso numerazioni non geografiche a valore aggiunto, traffico telefonico non attinente alle esigenze di servizio, non consentito e non autorizzato, utilizzando la linea dedicata al fax del reparto cui era addetto con un costo di oltre 8.000,00 Euro per la società, trattenendosi nei locali prima delle ore 8 e dopo l'orario contrattuale”.
La Corte d’appello rilevava, inoltre, che, contrariamente da quanto affermato dalla difesa del dipendente, “lo stato psico-fisico del lavoratore all'epoca non era di depressione e quindi non poteva accogliersi la tesi per cui le telefonate erano dovute alla necessità di sentire voci amiche in momenti difficili della giornata e che, comunque, il lavoratore avrebbe potuto sottoporsi a cure appropriate”.
Secondo la Corte, dunque, la gravità dei fatti addebitati al dipendente era stata tale da legittimarne il licenziamento.
Ritenendo la decisione ingiusta, il lavoratore aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolare, la Corte d’appello non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 2106 c.c. e all’art. 15 della legge n. 604 del 1966.
Evidenziava il ricorrente, in proposito, che la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23107 del 2008, aveva ritenuto “l'invio di ben 13.000 messaggi dal telefono aziendale era stato ritenuto un comportamento non sanzionabile con una sanzione espulsiva in quanto sproporzionata”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle considerazioni svolte dal dipendente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, infatti, che la Corte d’Appello aveva, del tutto adeguatamente, valutato “la proporzionalità della sanzione e la gravità della condotta addebitata”, con una sentenza che appariva “congrua e logicamente coerente”.
Rilevava la Corte, peraltro, come non potesse affermarsi che “uno stato di sofferenza psicologica” del lavoratore costituisca “una causa giustificativa del ripetuto uso illecito di mezzi aziendali a fini personali con un danno di una certa consistenza al datore di lavoro”.
Secondo la Cassazione, infatti, “al lavoratore certamente non poteva sfuggire il carattere illecito della condotta”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal lavoratore, confermando integralmente la sentenza impugnata.