A dirlo è la Corte di Cassazione penale, la quale, con la sentenza n. 10508 del 14 febbraio 2018, si è occupata proprio di un caso di questo tipo.
Il caso sottoposto all’esame della Cassazione ha visto come protagonista un soggetto, che era stato condannato, sia in primo che in secondo grado, per il reato di “violazione di domicilio” (art. 614 c.p.).
Nello specifico, il Tribunale e la Corte d’appello di Milano erano giunti alla conclusione di dover condannare l’imputato in quanto, dagli accertamenti effettuati in corso di causa, era emerso che questi si era “intrattenuto, contro la volontà manifesta della persona offesa, sul pianerottolo dello studio professionale del proprio ex legale”.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolare, la sentenza di condanna sarebbe stata ingiusta, in quanto non era stato dimostrato che l’imputato avesse “percepito il dissenso della persona offesa rispetto alla sua presenza”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle considerazioni svolte dall’imputato, rigettando il relativo ricorso.
Osservava la Cassazione, infatti, che la Corte d’appello aveva “fornito una motivazione logica e completa in ordine alla ricostruzione della dinamica degli eventi”, fondando la propria decisione sulla base di quanto narrato dalla persona offesa e dal custode dello stabile.
Evidenziava la Corte, in particolare, che le dichiarazioni rese dalla persona offesa e dal custode avevano smentito “l'assunto del ricorrente circa la contestualità tra manifestazione del dissenso della persona offesa ed allontanamento dal luogo dei fatti” da parte dell’imputato.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato, confermando integralmente la sentenza oggetto di impugnazione e condannando il ricorrente, altresì, al pagamento delle spese processuali.