Questi i fatti.
Un uomo veniva tratto a giudizio per rispondere, tra l'altro, del delitto di maltrattamenti in famiglia nei confronti della moglie, per il quale veniva in effetti condannato dal Tribunale in primo grado.
Successivamente, l'uomo veniva assolto in appello con la formula "perché il fatto non sussiste".
Tuttavia, il ricorso veniva respinto dalla Suprema Corte.
Innanzitutto, la persona offesa non risultava abbastanza attendibile, a causa delle numerose contraddizioni emerse dalla sua testimonianza.
Inoltre, sulla base delle prove raccolte la Corte aveva escluso che il marito avesse tenuto comportamenti violenti, umilianti o vessatori.
Semmai, l'ambiente familiare era caratterizzato da conflittualità e litigiosità, e i contrasti erano reciproci. Vi erano, soprattutto, frequenti discussioni riguardanti sia le spese familiari sia l'educazione dei figli della coppia.
In particolare, secondo le argomentazioni della Corte d'Appello, fatte proprie dalla Cassazione, i litigi della coppia dovevano considerarsi, appunto, litigi, ovvero manifestazioni di una reciproca conflittualità; non erano dunque espressione di "vessazioni unilaterali ai danni della persona offesa" come avviene, invece, nel delitto di maltrattamenti in famiglia.
Anche le offese verbali, secondo le due Corti (di merito e di legittimità) non avevano la finalità di denigrare, cioè screditare, la persona della moglie, ma erano anch'esse espressione delle abitudini familiari, che contemplavano anche il linguaggio volgare.
Inoltre tali offese si inserivano in litigi in cui anche la moglie ricambiava le offese al marito, dunque in un contesto di reciprocità.
Tutto ciò era stato confermato anche dalle dichiarazioni dei due figli della coppia, i quali avevano descritto il rapporto pessimo con la madre, definita una provocatrice, e riferivano di contrasti reciproci tra i genitori, dovuti soprattutto al comportamento della madre.
Tali contrasti riguardavano soprattutto le modalità di gestione delle risorse familiari, in quanto la moglie lamentava che il coniuge le "faceva pesare" ogni spesa: dunque non si trattava di comportamenti dell'imputato con la volontà di umiliare la moglie, bensì, appunto, di litigi insorti per questioni economiche e dovuti a semplici divergenze di vedute.
In conclusione, quindi, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, ritenendo che nei comportamenti descritti non fosse ravvisabile il reato di maltrattamenti in famiglia.