Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Roma aveva confermato la sentenza di primo grado, con la quale un imputato era stato condannato per “emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” (art. 8, d. lgs. 74 del 2000).
Nello specifico, l’imputato era stato accusato di tale reato in quanto egli, quale legale rappresentante di una società, “al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi”, negli anni 2009 e 2010 avrebbe emesso “112 fatture per operazioni inesistenti”.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Evidenziava il ricorrente, in particolare, di essere stato “un semplice prestanome, ottantenne, malato, munito di sola licenza elementare, incapace persino di accendere e spegnere un computer” e di essersi prestato ad accettare l'incarico su richiesta di un altro soggetto, “dietro corrispettivo mensile di trecento euro”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione all’imputato, rigettando il relativo ricorso, in quanto “manifestamente infondato”.
Osservava la Cassazione, infatti, che la Corte d’appello aveva accertato che la società dell’imputato “era una vera e propria ‘cartiera’”: la stessa aveva sede presso lo studio di un commercialista, non aveva un magazzino o un deposito (nonostante l’oggetto sociale prevedesse la vendita di prodotti elettronici), “aveva una sola dipendente, assunta per un brevissimo periodo di tempo; non era proprietaria di immobili, non aveva un sito internet, non compariva nelle Pagine Gialle”.
Secondo la Cassazione, inoltre, la Corte d’appello aveva, del tutto motivatamente, ritenuto di non poter credere alla tesi dell’imputato, che aveva affermato di essere stato “inconsapevole del proprio ruolo e della realtà dei fatti”.
Del resto, secondo la Cassazione, ai fini della configurabilità del reato tributario oggetto di contestazione, è sufficiente che il prestanome sia consapevole dell’altrui proposito illecito “che la propria condotta omissiva rende attuabile o comunque agevola, qualunque sia il motivo della sua decisione”.
Peraltro, precisava la Cassazione, nel caso in esame, era emerso che l’imputato aveva affermato “che l'attività di vendita dei telefonini veniva svolta su internet dall'impiegata (…) e di non essere a conoscenza del fatturato della società”.
Secondo la Cassazione, dunque, tale affermazione contraddiceva la tesi dell’imputato “della totale ignoranza dell'attività societaria” e confermava quanto sostenuto dalla Corte d’appello, secondo la quale “l'imputato era perfettamente a conoscenza dell'attività di ‘cartiera’ della società da lui legalmente rappresentata”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.