Il caso che ha occupato le
Sezioni Unite della
Corte di Cassazione, con la
sentenza n. 19681 del 22 luglio 2019, trae origine dalla vicenda di un soggetto il quale, dopo aver compiuto l’omicidio della moglie dodici anni prima, vedeva la notizia del fatto nuovamente pubblicata sulla stampa nazionale.
L’articolo di giornale che narrava l'avvenimento era stato pubblicato dopo un lungo lasso di tempo dal giorno del fatto, durante il quale l’autore dello stesso era riuscito a svolgere una nuova attività professionale, ricostruendosi una vita autonoma e indipendente rispetto alle tristi vicende occorse.
La
divulgazione della notizia, effettuata ad anni di distanza dal fatto, aveva quindi pregiudicato la serenità che tale individuo era riuscito a ricavarsi, generando in lui un persistente stato di angoscia e turbamento.
Il ricorrente vantava davanti ai giudici quello che è stato da tempo definito diritto all’oblio, ovvero il diritto “ad essere dimenticati”, dopo un certo periodo di tempo, relativamente a episodi di cronaca gravi e infamanti riguardanti la propria persona.
Tale diritto è stato da ultimo consacrato nel Regolamento UE n. 2016/679, il quale all’art. 17 prevede il “diritto alla cancellazione”, che consiste nel diritto di ottenere appunto la rimozione dei propri dati personali allorquando il mantenimento degli stessi non sia più necessario rispetto alle finalità per cui erano stati raccolti.
Tale diritto all’oblio, che è sostanzialmente una sotto-categoria del diritto alla privacy, deve però necessariamente essere bilanciato con un altro diritto fondamentale della collettività, quello di cronaca e, più nello specifico, quello della rievocazione storica di vicende che abbiano impattato particolarmente sul vissuto sociale della popolazione.
Tale diritto alla libera manifestazione del pensiero è tutelato, come noto, dall’art. 21 della Costituzione.
La giurisprudenza, affermano i giudici della Cassazione, ha già da tempo elaborato i tre limiti ai quali tale diritto di cronaca è sottoposto: quello dell’utilità sociale dell’informazione; quello della verità oggettiva o almeno putativa dei fatti (c.d. pertinenza); quello della continenza, ovvero il dovere di mantenere l’esposizione del fatto entro i limiti dell’obiettività.
Viceversa, il diritto all’oblio sussiste quando non vi sia più un’apprezzabile utilità sociale ad informare il pubblico circa l’accadimento avvenuto.
Tuttavia, affermano gli ermellini, tale diritto all'oblio diviene “recessivo” allorché il dibattito sia di interesse pubblico, l’interesse alla diffusione della notizia sia ancora attuale e sussista una grande notorietà dell’autore del fatto.
Affermate tali considerazioni, la decisione delle Sezioni Unite ha risolto il caso di specie prendendo le mosse da una premessa di fondo per cui non si tratterebbe in questo caso di diritto di cronaca in senso stretto, bensì di “attività storiografica”, poiché il giornalista rievoca, con la sua notizia, un fatto già lecitamente pubblicato molto tempo prima.
La domanda che è necessario porsi, di conseguenza, non attiene tanto al rispetto dell’art. 21 della Costituzione, bensì alla sussistenza di un interesse qualificato alla ripubblicazione di una certa notizia.
Il giudice di merito deve valutare, in altre parole, l’interesse pubblico, concreto e attuale alla “menzione degli elementi identificativi degli autori delle vicende”.
Tale menzione, infatti, non sempre è lecita.
A tal riguardo, afferma la Corte di Cassazione nel
principio di diritto della sentenza, “tale menzione deve ritenersi lecita solo nell’ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente
l’interesse della collettività, sia per ragioni di
notorietà che per il
ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’
onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva”.