Afferma, in particolare la Suprema Corte che al momento della morte del convivente proprietario dell’immobile, si estingue anche il diritto avente ad oggetto la detenzione qualificata sull'immobile e nessuna pretesa potrà essere avanzata in sede di successione mortis causa contro gli eredi legittimi.
Così come i giudici di legittimità, anche i giudici di merito avevano chiarito che un rapporto di convivenza stabile e duraturo non attribuisce automaticamente al convivente superstite un titolo idoneo e valido per possedere o detenere l'immobile.
Il diritto di abitazione di cui all’art. 540 co. 2 del c.c. è infatti espressamente riservato al coniuge e, pertanto, non estendibile ad una situazione di convivenza.
La Corte, in sede di ricorso presentato da una donna ex convivente al fine di ottenere il riconoscimento della reintegrazione nel possesso, ha colto l'occasione per specificare espressamente che "la detenzione qualificata del convivente non proprietario né possessore sul bene, è esercitabile e opponibile ai terzi, se è ancora esistente il titolo da cui deriva, e cioè in quanto perduri la convivenza".
In caso di cessazione di tale stato di fatto, infatti, si estingue anche il diritto avente ad oggetto la detenzione qualificata sull'immobile.
La relazione di fatto tra il bene e il convivente superstite, potrà ritenersi legittima soltanto al ricorrere di determinate condizioni.
Quando, ad esempio, il convivente superstite sia stato istituito legatario dell’immobile per espressa disposizione testamentaria ovvero quando sia stato costituito un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario.
Nel caso di specie esaminato dalla Corte non trovava applicazione nemmeno la nuova Legge 20 maggio 2016, n. 76, art. 1, comma 42, che attribuisce al convivente superstite il diritto di continuare ad abitare nella casa familiare, per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni.