La Sezione Lavoro della
Corte di Cassazione, con
ordinanza n. 10023/2019, si è nuovamente pronunciata in tema di demansionamento del lavoratore.
Secondo la società ricorrente, la sentenza impugnata avrebbe erroneamente affermato l’illiceità del demansionamento relativamente al periodo in cui le parti, dopo l’avvenuta soppressione del posto di lavoro, cercavano di raggiungere un accordo per la conservazione del rapporto.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso.
In proposito, la decisione in commento ricorda la costante giurisprudenza di legittimità, secondo cui la soppressione della posizione lavorativa già occupata dal dipendente obbliga il datore di lavoro alla assegnazione al lavoratore di altre mansioni. Tali mansioni devono essere professionalmente equivalenti, ove disponibili nell’organizzazione aziendale; l’assegnazione di mansioni di contenuto professionale inferiore richiede, invece, il consenso del lavoratore (cd. patto di demansionamento).
L’eventuale impossibilità di assolvere al suddetto obbligo, cosiddetto di “repêchage”, costituisce elemento integrativo della fattispecie del giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
D’altro canto la privazione totale delle mansioni costituisce violazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore, oggetto di tutela costituzionale, e non può costituire un’alternativa al licenziamento.
La Corte ha, inoltre, smentito l’assunto della società datrice di lavoro, secondo cui la privazione delle mansioni era avvenuta in pendenza della trattativa per il patto di modificazione delle stesse, e che si sarebbe verificata un’ipotesi di impossibilità a ricevere la
prestazione e non già una fattispecie di demansionamento.
Sul punto, la Cassazione rileva, innanzitutto, come parte ricorrente non abbia indicato da quali atti del giudizio di merito risulterebbe la disponibilità nell’organizzazione aziendale di mansioni inferiori, la loro proposta al dipendente ed i modi di svolgimento della successiva trattativa per la conservazione del posto di lavoro.
Quanto all’asserita impossibilità di ricevere la prestazione, la Corte ribadisce che essa può essere causa di risoluzione del rapporto di lavoro e non già di esecuzione dello stesso in violazione dei diritti anche di rilievo costituzionale del lavoratore.