La vicenda prende avvio dalla
condotta dell'imputato, transessuale esercente la
prostituzione, che, con molteplici post sulla propria bacheca di
Facebook, aveva affermato la presunta
omosessualità della vittima, nonché di aver intrattenuto con lui un rapporto sessuale, usando nelle comunicazioni termini come
"frocio" e "schifoso". La Corte d'Appello ha confermato la decisione di primo grado che aveva condannato l'
imputato per
diffamazione ex art.
595 c.p. in danno di una persona,
aggravata a mezzo Internet.
La condotta in esame è giuridicamente inquadrabile nel reato di
diffamazione previsto all'art.
595 c.p., il quale punisce chiunque,
comunicando con più persone, offende l'
altrui reputazione. L'offesa può essere arrecata anche col mezzo della
stampa o con qualsiasi altro
mezzo di pubblicità, ovvero con
atto pubblico.
La dottrina tradizionale delinea come diffamatorio ogni fatto che,
se fosse commesso in presenza dell'offeso, costituirebbe
ingiuria (Antolisei). La giurisprudenza però ha alleggerito tale affermazione. Difatti
non ogni espressione "forte" e "pungente" è idonea a configurare penale
responsabilità: è essenziale che i termini utilizzati o il concetto veicolato siano
oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo. Oggetto di tutela del delitto in esame è, dunque, l'
onore in senso oggettivo o esterno, da intendersi in
senso di dignità personale in conformità all'opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico (
ex multis Cass. pen., Sez. V, n. 3247 del 28/2/1995, L.P. ed altro, CED Cass. 201054).
La reputazione è, perciò, da tenersi
distinta dall'identità personale, che corrisponde, invece, al
diritto dell'individuo alla rappresentazione della propria personalità agli altri, senza alterazioni e travisamenti. Tale interesse può essere violato attraverso
rappresentazioni offensive ma che, se poste in essere, non hanno autonoma rilevanza penale, bensì rientrando nell'ambito dell'
illecito civile (Cass. pen., Sez. V, n. 849/93 del 6 novembre 1992, T., CED Cass. 193494).
I termini utilizzati o il concetto veicolato devono risultare, quindi,
oggettivamente idonei a ledere la reputazione. In relazione al caso di specie - ha sostenuto la difesa dell'imputato - sembra
non configurare reato di diffamazione il riferimento e l'utilizzo di
espressioni attributive di tendenze sessuali. La Suprema Corte, in un costante orientamento, ha statuito che il mero riferimento ad una persona, indicandola con il termine "omosessuale", non può considerarsi foriera di offesa all'
onore, poiché si tratta di espressione che, a differenza di altri termini denigratori, si limita ad attribuire una
qualità personale attinente alle
preferenze sessuali ed entrata oramai nel
linguaggio comune. In un'ottica di diritto vivente, è da escludere che la mera attribuzione della suindicata qualità abbia carattere lesivo della
reputazione del soggetto, in considerazione proprio l
'evoluzione della percezione della omosessualità da parte della collettività e mantenendo altresì un
carattere di neutralità. Non rileverà, nemmeno, se evocato con una
intenzione offensiva, integrante esclusivamente un illecito civile, come sopra indicato. La difesa dell'imputato, seguendo questa linea interpretativa, si era opposta, appunto, alla configurazione del
reato di diffamazione, proprio in ragione della suddetta evoluzione della coscienza sociale che ha
ridotto, anche se non annullato, il carattere dispregiativo degli appellativi utilizzati dall'imputato ("frocio").
I Supremi Giudici non hanno aderito a questa argomentazioni della difesa, rilevando ed evidenziando il chiaro tenore denigratorio degli appellativi indirizzati alla vittima. Hanno ribadito, inoltre, che, anche se si può rilevare una presunta evoluzione della coscienza italiana, tali espressioni devono essere valutate nell'ottica della maggioranza della popolazione italiana, alle quali ricorre con il chiaro fine di veicolare, oltre che una evidente lesione dell'identità personale della vittima, sopratutto un avvilimento dell'altrui personalità e dignità.
La Corte, con la
sentenza 17 maggio 2021, n. 19359, ha dichiarato l'
inammissibilità del ricorso dell'imputato e confermato il
tenore denigratorio di tali appellativi, configurando quindi il reato di diffamazione ex art.
595 c.p., aggravato dall'utilizzo del social network.