Il caso sottoposto all’esame della Cassazione ha visto come protagonista una donna, che era stata accusata di “diffamazione” (art. 595 c.p.), per aver offeso la reputazione del Sindaco di un Comune, diffondendo un messaggio attraverso il social network “Facebook”.
A seguito della condanna da parte del Tribunale, prima, e della Corte d’appello, poi, l’imputata aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
La Corte d’appello, in particolare, era giunta alla conclusione di dover condannare l’imputata in quanto il messaggio oggetto di contestazione proveniva da un profilo che riportava il nome e cognome dell’imputata stessa, la quale, peraltro, non aveva “mai lamentato che altri avessero usato il suo nome e cognome abusivamente”, né aveva “mai denunciato alcuno per furto di identità”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle considerazioni svolte dal giudice del precedente grado di giudizio, accogliendo il ricorso proposto dalla condannata, in quanto fondato.
Osservava la Cassazione, infatti, che i giudici di secondo grado avevano ritenuto sussistente la responsabilità della ricorrente, considerando senz’altro riferibile alla stessa la frase reputata offensiva, “pur a fronte del mancato formale riscontro dell'indirizzo IP di provenienza”.
Ebbene, secondo la Corte, così facendo, il giudice d’appello avrebbe motivato in maniera insufficiente la propria decisione “circa il prospettato dubbio relativo all'eventualità che terzi abbiano potuto utilizzare il nickname dell'imputata, mandando il messaggio sul forum di discussione”, con la conseguenza che il ricorso proposto dall’imputata avrebbe dovuto essere accolto.
La Corte di Cassazione annullava dunque la sentenza di condanna, rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima procedesse ad un nuovo esame della questione.