In particolare, può parlarsi di minaccia “grave” anche se la stessa viene formulata al telefono?
Stando a quanto affermato dalla Suprema Corte, nella sentenza sopra citata, sembrerebbe proprio di sì.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di Agrigento aveva condannato un imputato alla pena di sei mesi di reclusione, per il reato di “minaccia grave” (art. 612, comma 2, cod. pen.), in quanto questi aveva minacciato di morte la ex compagna.
L’imputato, ritenendo la decisione ingiusta, aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, infatti, i giudici dei primi due gradi di giudizio avevano fondato la loro decisione sulla sola base della testimonianza della persona offesa, che non aveva trovato nessun altro riscontro.
Evidenziava il ricorrente, inoltre, che la condotta era stata posta in essere in quanto la donna gli aveva impedito di parlare al telefono con la figlia minore. Di conseguenza, secondo il ricorrente, la condotta poteva essere al massimo qualificata come “minaccia semplice” ma non come “minaccia grave”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione all’imputato, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, in particolare, che la “gravità” della minaccia deve essere valutata tenendo in considerazione il “tenore delle eventuali espressioni verbali” e il “contesto nel quale esse si collocano”, in modo da verificare “se, ed in quale grado, la condotta minatoria abbia ingenerato timore o turbamento nella persona offesa”.
Pertanto, secondo la Corte, la minaccia può anche non essere circostanziata, essendo possibile che anche una minaccia pronunciata in modo generico produca “un grave turbamento psichico”.
Ciò premesso, la Cassazione riteneva che la Corte d’appello avesse del tutto correttamente confermato la sentenza di condanna di primo grado, qualificando la condotta posta in essere dall’imputato come “minaccia grave”, dal momento che lo stesso aveva minacciato di morte l’ex compagna e l’aveva minacciata, altresì, di “rubargli” la bambina.
Ebbene, secondo la Cassazione, la gravità della minaccia non poteva essere messa in discussione, a nulla rilevando che la stessa fosse stata formulata per mezzo del telefono.
Ciò considerato, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.