La pronuncia in esame ha tratto origine dalla vicenda che vedeva come protagonista un ragazzo, il quale, a causa dei forti dolori addominali che accusava da anni, veniva ricoverato nel reparto di gastroenterologia, presso cui, visto il suo progressivo dimagrimento e lo stato di deperimento che lo colpiva, veniva sottoposto all’inserimento di un catetere venoso centrale per alimentarlo. In seguito a ciò, il giovane veniva dimesso con una diagnosi di “grave malnutrizione in paziente con sindrome da malassorbimento verosimilmente secondaria a progresso flogistico intestinale”, qualificando la sua patologia come bulimia nervosa o sindrome ansiosa.
Soltanto quattro giorni dopo la sua dimissione, il ragazzo subiva un nuovo ricovero in un’altra struttura, durante il quale, però, gli veniva diagnosticato il morbo di Crhon. Veniva, così, sottoposto ad una terapia con nutrimento parenterale che gli causava un’infezione della linea venosa centrale, la quale, nei giorni seguenti, lo portava alla morte in seguito ad un’embolia polmonare.
In seguito all’accaduto, i genitori e le sorelle del defunto citavano in giudizio l’Azienda ospedaliera presso la quale era avvenuto il primo ricovero, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento dei danni derivati dalla mancata diagnosi del morbo di Crhon, a causa della quale il giovane non era stato sottoposto tempestivamente ad un trattamento terapeutico adeguato.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello aditi, però, rigettavano l’istanza attorea, non ritenendo sussistente alcun nesso causale tra l’omissione dei medici e il successivo decesso.
Gli attori ricorrevano, pertanto, dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo, in primis, la contraddittorietà della sentenza d’appello che, prima affermava come non vi fossero dati clinici che attestassero lo stato della malattia al momento delle dimissioni dalla struttura citata in giudizio, ma, poi, diceva che il giovane, sia al momento iniziale del ricovero che all’atto della dimissione, versava nelle medesime condizioni di patologia in atto.
I ricorrenti censuravano, inoltre, la stessa pronuncia di secondo grado nella parte in cui considerava non provato il nesso causale tra la condotta omissiva dei sanitari e la morte del paziente, senza che fossero state accolte le richieste istruttorie aggiuntive, avanzate al fine di dimostrare il peggioramento delle condizioni del giovane tra il primo ed il secondo ricovero in una diversa struttura.
La Suprema Corte, ritenendo fondati i motivi proposti, ha accolto il ricorso.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, rileva come, nel pronunciarsi in merito alla responsabilità medica, la Corte d’Appello si sia contraddetta nell’affermare che le condizioni di salute del giovane erano rimaste invariate tra un ricovero e l’altro. Secondo gli Ermellini, la carenza di informazioni in merito all’effettivo stato di salute del ragazzo all’atto della sua dimissione, è incompatibile con quanto affermato in seguito dalla stessa Corte territoriale, per cui dopo il primo ricovero la situazione non si era aggravata.
Si è, altresì, ritenuta contrastante con la decisione di non concedere un supplemento di perizia, l’affermazione per cui, i dati clinici mancanti, sarebbero stati rilevanti sul piano probatorio, per la loro natura oggettiva e scientifica. La Suprema Corte ha, infatti, evidenziato come l’acquisizione di ulteriori elementi di prova avrebbe permesso di acquisire informazioni rilevanti ai fini della decisione.