Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva confermato la condanna di un imputato per il reato di “maltrattamenti in famiglia”, commesso in danno della moglie, di origine tunisina.
In particolare, la moglie aveva raccontato di aver subito molestie dal marito, il quale aveva intrapreso una relazione con un’altra donna, dalla quale aveva avuto un figlio.
Il marito, infatti, di fronte alle proteste della moglie circa tale situazione, aveva reagito in modo violento e minaccioso, ponendola, di fatto, di fronte alla scelta tra sopportare tale relazione o tornare in Tunisia, stante la situazione di difficoltà economica.
Ritenendo la sentenza ingiusta, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando la “assenza di indizi gravi, precisi e concordanti in punto di responsabilità”.
Secondo il ricorrente, in particolare, la sentenza impugnata si baserebbe “su mere congetture non assistite da adeguati riscontri, attribuendo rilievo alle sole dichiarazioni della persona offesa quale unica testimone diretta dei fatti contestati, in assenza di elementi presuntivi dai quali inferire la responsabilità dell’imputato nella commissione delle plurime condotte necessarie per una pronuncia di condanna”.
Evidenzia l’imputato come “la credibilità della persona offesa” fosse stata “erroneamente affermata sulla base di un singolo episodio (produttivo di mere percosse) riscontrato da alcuni testi, che tuttavia non basta – in difetto di qualsiasi indicazione sui criteri adottati per rilevare l’assenza del contrasto delle dichiarazioni della persona offesa con le altre acquisizioni probatorie – ad avvalorare la descrizione dei fatti di maltrattamento contenuta nel capo d’imputazione”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso.
Secondo la Cassazione, infatti, la Corte d’appello aveva adeguatamente motivato la propria decisione, tenendo in considerazione “l’intero quadro probatorio” e “confutando, con argomenti logicamente illustrati, tutte le obiezioni dalla difesa mosse in punto di fatto”.
La Corte d’appello, in particolare, avrebbe, del tutto correttamente, ritenuto attendibile il “contributo narrativo offerto dalla persona offesa, in quanto privo di contraddizioni di rilievo sui punti principali e supportato da plurimi ed oggettivi elementi di riscontro”.
La moglie, in particolare, aveva riferito di essersi trovata in una “condizione di isolamento, bisogno economico e intimidazione” dopo essere arrivata dalla Tunisia in Italia per ricongiungersi al marito, come dimostrato anche da quanto affermato dalla psicologa, sentita in sede testimoniale, la quale aveva “riferito di aver ricevuto dalla persona offesa la sofferta narrazione di percosse e minacce da parte del di lei marito”.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva congruamente motivato la propria decisione, delineando “un quadro storico-fattuale ritenuto coerentemente dimostrativo sia della volontà dell’imputato di imporre alla moglie, lungo il consistente arco temporale ricompreso fra l’arrivo in Italia della donna e la denuncia dalla stessa presentata alla fine di agosto 2013, la realtà della sua stabile convivenza di fatto con un’altra donna – dalla quale peraltro aveva già avuto un figlio – sia della violenta e minacciosa reazione alle sue comprensibili proteste, con l’intento di porla di fronte alla scelta tra la passiva sopportazione della situazione in atto, ovvero il ritorno in Tunisia per la condizione di abbandono economico, tanto che solo grazie all’aiuto di una conoscente occasionale riuscì, dapprima, a trovare una provvisoria sistemazione abitativa, quindi ad essere accolta presso una struttura protetta”.
Alla luce di tali circostanze, la Cassazione riteneva che la Corte d’appello avesse correttamente ritenuto l’imputato colpevole del reato di maltrattamenti in famiglia, che è integrato “dalla condotta dell’agente che sottopone la moglie ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionarle sofferenza, prevaricazione ed umiliazioni, in quanto costituenti fonti di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di esistenza”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.