Questa norma ribadisce il principio dettato dal primo comma dell’
art. 113 del c.p.c., in forza del quale la regola generale è che la risoluzione della
controversia ad opera degli
arbitri debba avvenire secondo diritto, costituendo l'arbitrato di
equità un'
eccezione.
Il carattere eccezionale della decisione di equità sembra smentito dalla previsione contenuta nel testo della stessa norma in esame, nella parte in cui stabilisce che non occorre fare
ricorso a formule sacramentali (essendo, invece, sufficiente “qualsiasi espressione”) affinché le parti esprimano validamente la propria volontà a che gli arbitri decidano secondo equità anziché
stricto iure.
In effetti, nell'ambito del giudizio arbitrale, il quale si fonda interamente sulla volontà delle parti, non può avere particolare senso stabilire un rapporto di regola ed eccezione, in quanto si ritiene che per il legislatore sia indifferente che la decisione avvenga in un modo o nell'altro (forse sarebbe stato più corretto asserire che i due criteri di giudizio si pongono tra loro in modo alternativo).
Sotto questo profilo, la norma in esame può ritenersi più che altro funzionale ad integrare il contenuto della disciplina convenzionale in caso di lacuna, nel senso che, se dall'
interpretazione della volontà delle parti non è possibile capire se queste vollero un arbitrato di equità ovvero di diritto, gli arbitri devono decidere
stricto iure.
Conseguenza dell'affermazione che gli arbitri, nel decidere secondo stretta legalità, sono tenuti all'osservanza delle norme di diritto in modo identico a quello imposto ai giudici dello Stato ex
art. 113 del c.p.c., è che anche in ambito arbitrale deve ritenersi applicabile il principio
iura novit curia e che gli arbitri possono e devono conoscere, individuare, interpretare ed applicare tutte le norme che compongono l'
ordinamento giuridico italiano.
Nel conferire agli arbitri poteri equitativi, le parti sono del tutto libere di usare “qualsiasi espressione”; qualora dovessero sorgere dei contrasti tra le parti circa l'attribuzione di tali poteri, si pone un problema di interpretazione della volontà delle parti, il quale va risolto in base alle disposizioni di cui agli artt.
1362 e ss. c.c.
Si ritiene che non sia ammissibile la scelta per un arbitrato di equità effettuata
per facta concludentia, essendo indispensabile una manifestazione esplicita di volontà in tal senso.
Qualora dovesse essere previsto dalle parti che gli arbitri decidano “
anche secondo equità”, ovvero “
secondo diritto ed equità”, si deve ritenere che le parti non si siano limitate a scegliere un arbitrato di equità, ma abbiano inteso anche stabilire il procedimento logico che gli arbitri devono seguire (pertanto, gli stessi dovranno innanzitutto individuare la soluzione che discenderebbe
stricto iure e successivamente verificare se tale soluzione è conforme all'equità, potendo, eventualmente, modificarne la portata).
La norma in esame, infatti, deve essere coordinata con l'
art. 816 bis del c.p.c., in forza del quale le parti hanno la facoltà di determinare, nel modo che maggiormente preferiscono, quali operazioni debbono seguire gli arbitri per giungere alla decisione (sia di diritto sia di equità); la fonte primaria della disciplina dell'arbitrato (sia rituale che irrituale) a cui devono attenersi gli arbitri, dunque, è la volontà delle parti.
Ciò consente di ritenere che le parti abbiano la possibilità di scegliere e di determinare autonomamente se la decisione secondo equità debba costituire per gli arbitri un “potere” ovvero un “dovere”.
La Riforma Cartabia è intervenuta su questa norma prevendendo, sempre per gli arbitrati instaurati successivamente al 28.2.2023, che le parti possano indicare le norme o la legge straniera quale legge applicabile alla controversia.