Con questa norma il legislatore si è occupato della nullità, la quale può essere di due tipi:
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nullità formale: è tale quella che riguarda i singoli atti del processo;
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nullità extraformale: discende da un vizio dei presupposti processuali, il quale può anche essere rilevato d’ufficio dal giudice.
Se tale vizio è insanabile, allora il processo si chiude, mentre se è sanabile se ne attua la sanatoria secondo quanto previsto dal successivo
art. 157 del c.p.c..
La norma in esame si occupa del primo tipo di nullità, ossia quella riguardante il singolo atto del processo, la quale, a sua volta, può aversi in due ipotesi concorrenti, ossia:
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per espressa previsione di legge (viene sancito il principio della c.d. tassatività delle nullità);
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per inidoneità dell’atto a raggiungere lo scopo per cui è stato posto in essere. E’ questa l’ipotesi prevista dal secondo comma e la nullità si determina quando l’atto, in astratto, non si presenta idoneo a conseguire la propria funzione (ne è un esempio la sentenza nulla perché priva di motivazione, in quanto non adempie alla finalità che la legge attribuisce alla sentenza).
Lo scopo dell’atto non deve indentificarsi con quello soggettivo di colui che lo compie, ma è quello oggettivo previsto dalla legge, ovvero la funzione tipica che per la legge deve assumere l’atto all’interno del processo.
Carattere peculiare della nullità degli atti processuali è il fatto che l’atto, anche se nullo, è comunque in grado di produrre i suoi effetti tipici, come se fosse valido, ma nello stesso tempo è soggetto ad
impugnazione (si tratta, per certi versi, di una figura analoga all’istituto della
annullabilità proprio del diritto civile sostanziale).
Di particolare importanza ai fini dello svolgimento del processo è il terzo comma della norma, il quale dispone che in ogni caso la nullità, malgrado una espressa previsione di legge, non può essere pronunciata se l’atto ha comunque raggiunto lo scopo per il quale era stato posto in essere (viene qui sancito il c.d. principio della strumentalità delle forme).
In tal caso, infatti, sono i fatti stessi (cioè il raggiungimento dello scopo) a conferire validità oggettiva all’atto, determinandone la sua sanatoria.
Esempio ricorrente di una tale ipotesi si ha in materia di
notificazione, la cui nullità non può mai essere pronunciata se l’atto ha comunque raggiunto lo scopo a cui era destinato, ovvero tutte le volte in cui l’atto, malgrado l’irritualità della notificazione, sia venuto a conoscenza del destinatario.
Nei casi in cui, invece, l’atto oltre che invalido sia anche inefficace, allora non si parlerà più di nullità dell’atto, ma di sua inesistenza.
Così, la c.d. inesistenza giuridica o nullità radicale di un provvedimento avente contenuto decisorio, erroneamente emesso da un giudice carente di potere o che emana un provvedimento irriconoscibile come atto processuale di un determinato tipo, può essere fatta valere in ogni tempo, mediante un’azione di accertamento negativo (
actio nullitatis), oltre che essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.