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Articolo 2107 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Orario di lavoro

Dispositivo dell'art. 2107 Codice Civile

La durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro non può superare i limiti stabiliti dalle leggi speciali [o dalle norme corporative](1) [2108; Cost. 36](2).

Note

(1) Vedi nota 2 sub art. 2106.
(2) La legge definisce solo la durata massima della prestazione lavorativa, pertanto le parti possono prevedere convenzionalmente un orario di lavoro diverso in ragione delle esigenze del datore di lavoro, che comunque non superino i limiti imposti dalla legge.

Massime relative all'art. 2107 Codice Civile

Cass. civ. n. 31349/2021

Nei rapporti di lavoro a tempo pieno, il diritto del datore di lavoro alla distribuzione dell'orario di lavoro, espressione del potere di organizzazione dell'attività, può subire limiti solo in dipendenza di accordi che vincolino l'imprenditore a particolari procedure, diversamente da quanto accade nei contratti con orario part-time, nei quali la programmabilità del tempo libero del lavoratore (al fine di garantire l'esplicazione di un'ulteriore attività lavorativa) assume carattere essenziale che giustifica l'immodificabilità dell'orario da parte datoriale

Cass. civ. n. 21562/2018

In tema di rapporto di lavoro subordinato privato, ove sia prevista una pausa nello svolgimento dell'attività lavorativa, in difetto di una previsione di legge o contrattuale che ricomprenda il tempo da dedicare alla pausa nell'orario di lavoro, è onere del lavoratore allegare e dimostrare, ai fini della sua remunerazione, che tale tempo è connesso o collegato alla prestazione, è eterodiretto e non è lasciato, per la sua durata, nella disponibilità autonoma del lavoratore medesimo.

Cass. civ. n. 19738/2015

Ai fini della determinazione della durata dell'orario di lavoro, non possono ritenersi discontinue le mansioni del lavoratore addetto, oltre che alle mansioni di autista, anche a piccole incombenze all'interno dello stabilimento del datore di lavoro.

Cass. civ. n. 5023/2009

Il criterio distintivo tra riposo intermedio, non computabile ai fini della determinazione della durata del lavoro, e semplice temporanea inattività, computabile, invece, a tali fini, e che trova applicazione anche nel lavoro discontinuo, consiste nella diversa condizione in cui si trova il lavoratore, il quale, nel primo caso, può disporre liberamente di se stesso per un certo periodo di tempo anche se è costretto a rimanere nella sede del lavoro o a subire una qualche limitazione, mentre, nel secondo, pur restando inoperoso, è obbligato a tenere costantemente disponibile la propria forza di lavoro per ogni richiesta o necessità. (Nella specie si è escluso che fossero periodi di riposo intermedi quelli durante i quali, nel corso di un viaggio, l'autista di un autotreno, sprovvisto di cabina, lascia la guida al compagno, trattandosi, in tal caso, non di un periodo di riposo intermedio vero e proprio, bensi di sem¬plice temporanea inattività).

Cass. civ. n. 21695/2008

Il principio di ragionevolezza, in base al quale l'orario, di lavoro deve comunque rispettare i limiti imposti dalla tutela del diritto alla salute, si applica anche alle mansioni discontinue o di semplice attesa per le quali la variabilità, caso per caso, della loro onerosità - che dipende dalla intensità e dalla natura della prestazione ed è diversa a seconda che questa sia continuativa, anche se di semplice attesa, o discontinua - impedisce una limitazione dell'orario in via generale da parte del legislatore. La valutazione in ordine al superamento, in concreto, del suddetto limite, spetta al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se assistita da motivazione logica e sufficiente. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto in contrasto con il principio di ragionevolezza la prestazione di un autista di autotreni, impegnato, con brevi intervalli di attesa tra un' attività e l'altra, nel trasporto e nel carico e scarico della merce, con un orario di lavara di 16 ore al giorno per quattro giorni alla settimana).

Cass. civ. n. 11432/2006

In mancanza di una previsione contrattuale che obblighi il lavoratore alla prestazione lavorativa di sabato, il comportamento, anche se protratto per lungo tempo, di mancata opposizione alla prestazione dell'attività lavorativa nella giornata di sabato (una volta ogni tre settimane) è espressione di un consenso ad accettare di svolgere la prestazione lavorativa non dovuta, manifestato di volta in volta, anche tacitamente, in occasione delle singole giornate lavorate, ma da ciò non può desumersi la volontà del lavoratore di obbligarsi anche per il futuro a svolgere tale prestazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, dichiarativa dell'illegittimità del licenziamento disciplinare comminato al lavoratore che, dopo aver svolto diverse volte il lavoro nel turno di sabato oltre le 40 ore settimanali, previsto dall'azienda ma non dal contratto aziendale né da quello collettivo, si era successivamente rifiutato di continuare a sottostare all'imposizione aziendale in tal senso).

Cass. civ. n. 5544/2003

L'elencazione dei tempi che non possono essere considerati di lavoro, contenuta nell'art. 5 R.D. n. 1955 del 1923, non è esaustiva, essendo la stessa limitata ai casi più frequenti, sicché dalla mancata indicazione della ipotesi del pernottamento sul veicolo durante i viaggi compiuti per conto e nell'interesse del datore di lavoro, e in genere dall'attività di sorveglianza, non pub desumersi che il tempo così trascorso abbia natura di lavoro.

Cass. civ. n. 5359/2001

Salvo diverse previsioni contrattuali, il tempo impiegato giornalmente per raggiungere la sede di lavoro durante il periodo della trasferta non può considerarsi come impiegato nell'esplicazione dell'attività lavorativa vera e propria, non facendo parte del lavoro effettivo, e non si somma quindi al normale orario di lavoro, cosi da essere qualificato come lavoro straordinario, tanto più che l'indennità di trasferta è in parte diretta a compensare il disagio psicofisico e materiale dato dalla faticosità degli spostamenti suindicati.

Cass. civ. n. 15419/2000

Dalla lettura logico-sistemica della legislazione in materia di orario di lavoro si desume che, come regola generale, la settimana di calendario costituisce il parametro di riferimento dell'orario massimo normale sia in relazione alla singola giornata lavorativa sia in relazione all'intera settimana lavorativa (rispettivamente corrispondenti ad 8 e 48 ore di lavoro effettivo ex art. 1 R.D.L. n. 692 del 1923, convertito nella legge n. 473 del 1925, e quest'ultimo ridotto a 40 ore di lavoro effettivo dall'art. 14 della legge n. 196 del 1997). Peraltro, è consentito alla contrattazione collettiva sia derogare in melius ai suddetti limiti, sia parametrare l'orario cosa individuato nell'ambito di una settimana non coincidente con quella di calendario ma invece con quella corrente da un riposo ad un altro ovvero anche nell'ambito di un periodo più lungo (facoltà che è stata legislativamente riconosciuta in favore dell'autonomia collettiva solo con l'art. 14 della legge n. 196 del 1997 cit.). Tuttavia, la legittimità di tale contrattazione collettiva è subordinata ad alcune condizioni. Infatti, per la disciplina antecedente alla legge n. 196 del 1997, tale legittimità presupponeva il rispetto continuo e costante — e cioè in riferimento ad ogni singola giornata di esecuzione dell'attività lavorativa e ad ogni periodo di sette giorni lavorativi — dei limiti temporali (di 8 ore giornaliere e 48 settimanali) fissati dalla legislazione all'epoca vigente a garanzia della salute del lavoratore; in base all'art. 13 della legge n. 196 del 1997 cit. invece, l'ammissibilità della fissazione convenzionale dell'orario normale settimanale in termini ridotti rispetto al limite legale delle 40 ore (limite, la cui osservanza è consentita con il criterio della cosiddetta media multiperiodale e, cioè, in termini più flessibili) è condizionata al rispetto del limite delle 8 ore giornaliere in quanto, ancorché la nuova normativa non contenga alcuna disposizione in merito all'orario normale massimo giornaliero, è da escludere che la contrattazione collettiva possa derogare al suddetto limite, in considerazione sia della rilevanza costituzionale della durata massima della giornata lavorativa sia dell'autonomia — e non alternatività — dell'orario giornaliero rispetto all'orario settimanale. (In base ai suddetti principi la S.C. ha respinto la domanda proposta da un dipendente dell'Arin — già Aman — tendente ad ottenere un computo più favorevole del lavoro straordinario).

Cass. civ. n. 9134/2000

Poiché la legge definisce soltanto la durata massima della prestazione lavorativa, le parti del contratto di lavoro possono prevedere una convenzione caratterizzate da elasticità dell'orario, in ragione delle mutevoli esigenze del datore di lavoro, subordinatamente ad un minimo di programmazione o preavvertimento, senza che sia necessaria la forma scritta, che è richiesta ad substantiam solo per la configurabilità del contratto part-time (art. 5, L. n. 863 del 1984); .anche in tal caso, peraltro, il datore di lavoro non può variare l'orario lavorativo a suo arbitrio senza alcuna preventiva concertazione ed è obbligato, pertanto, a corrispondere al dipendente la relativa retribuzione per i periodi di tempo in cui questi è rimasto a disposizione.

Cass. civ. n. 2033/2000

Il rapporto di lavoro subordinato, in assenza della prova di un rapporto part-time, nascente da atto scritto, si presume a tempo pieno ed è onere del datore di lavoro, che alleghi invece la durata limitata dell'orario di lavoro ordinario, fornire la prova della consensuale riduzione della prestazione lavorativa.

Cass. civ. n. 2340/1997

Le cosiddette clausole elastiche, che consentono al datore di lavoro di richiedere «a comando» la prestazione lavorativa dedotta in un contratto di part-time (nella specie concluso prima dell'entrata in vigore del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito nella legge 19 dicembre 1984, n, 863) sono illegittime, in quanto potenzialmente lesive de) diritto a conseguire una retribuzione conforme all'art. 36 Cost., nella misura in cui impongono al lavoratore tempi di disponibilità non utilizzabili in altre attività, siano esse redditizie o meno. In tal caso non tutto il contratto part-time perde validità, ma solo quella parte di esso che riserva al datore di lavoro il potere unilaterale di fissare le modalità temporali della prestazione pattuita; con l'ulteriore conseguenza che, per il periodo in cui la prestazione di lavoro è stata resa in base ad una clausola nulla, la disponibilità alla chiamata del datore di lavoro, di fatto richiesta al lavoratore, pur non potendo essere equiparata a lavoro effettivo, deve comunque trovare adeguato compenso, tenendo conto di come quella disponibilità abbia avuto in concreto incidenza sulla possibilità di attendere ad altre attività redditizie, di quale sia stato il tempo di preavviso previsto o di fatto osservato per la richiesta di lavoro «a comando», dell'eventuale quantità di lavoro predeterminata in maniera fissa e della possibile convenienza dello stesso lavoratore a concordare di volta in volta le modalità della prestazione.

Cass. civ. n. 10642/1995

L'elencazione, contenuta nella tabella approvata con R.D. 6 dicembre 1923, n. 2657 (applicabile anche con riguardo al personale dei consorzi di bonifica in considerazione della natura industriale dell'attività dei medesimi), delle occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia, alle quali non si applica la limitazione di orario di otto ore giornaliere, stabilita dall'art. 1 del R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, ha carattere tassativo. Pertanto, non è consentito includervi, per effetto di interpretazioni analogiche, altre mansioni, diverse da quelle contemplate, neppure nel caso in cui tali diverse mansioni siano svolte dallo stesso soggetto in concorso con mansioni comprese nell'elenco e prevalenti su quelle da esso non considerate.

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