AUTORE:
Simona Monda
ANNO ACCADEMICO: 2019
TIPOLOGIA: Tesi di Laurea Magistrale
ATENEO: Universitą degli Studi di Salerno
FACOLTÀ: Giurisprudenza
ABSTRACT
Il dibattito sul risarcimento dei "danni da morte" continua a dividere, da molti anni e da molteplici punti di vista, la dottrina e la giurisprudenza.
Uno dei punti più controversi è quello in riferimento all’ammissibilità del risarcimento iure successionis del danno tanatologico, espressione con cui si fa riferimento a quella tipologia di danno derivante dalla morte di un individuo a causa della condotta illecita di un terzo. Sulla risarcibilità (o meno) di tale specie di danno, che rientra nell'alveo dell'unitaria categoria del danno non patrimoniale disciplinata ai sensi dell'art. 2059 del c.c., tanto la dottrina quanto la giurisprudenza si sono spesso interrogate, e continuano ancor oggi ad interrogarsi, senza, però, giungere ad una qualche soluzione stabile al riguardo.
A ben vedere però, la tesi accolta dall’autorità nomofilattica nel corso del tempo, al di là di quel singolo caso risalente alla pronuncia n. 1361/2014, con cui ha aperto, seppur per un breve lasso di tempo, le porte al danno tanatologico, si fonda su di un’idea negazionista che sposa, in sintesi, l’idea che nel danno da morte si discute sì del risarcimento da perdita della vita, ma, se la morte è immediata, il danno consistente in quella perdita non è risarcibile perché, nel momento in cui il diritto sorge, il suo titolare viene meno. Di conseguenza, il risarcimento, non potendo andare a beneficio del danneggiato, morto immediatamente, non può avere funzione risarcitoria.
Si tratta di argomenti non del tutto chiari, ai quali possono essere contrapposte soluzione assolutamente differenti senza perciò apparire prive di giustificazione, che mettono in discussione la stessa importanza del diritto alla vita fornita dall’art. 2 Cost. e dall’art. 2 CEDU, vita che non ottiene giustizia in tali ipotesi perché intrappolata in congetture del passato (come ad esempio quella della funzione affidata alla responsabilità civile), volte ad escludere una tale risarcibilità senza dar ascolto alla voce della coscienza sociale.
Allora una domanda sorge spontanea: il diritto alla vita esplicitamente consacrato e protetto da molteplici fonti va preso sul serio nell’ordinamento italiano oppure finisce con l’assumere le sembianza di una nobile dichiarazione di principio, con una valenza concreta circoscritta? La risposta che emerge da un accurato studio su detto tema, passando dalle pronunce più remote, giungendo a quelle di recente data, al fine di ritrovare risposte plausibili che escludessero qualsiasi margine di perplessità in merito a tale esclusione, è di certo, a mio avviso, che in caso di danno da morte istantanea, il diritto alla vita diventa una "mera utopia" nel nostro ordinamento.
Si determina un assoluto paradosso che di certo non potrà scomparire neppure di fronte agli sforzi della Suprema Corte, la quale cerca di far apparire il danno tanatologico come una mera "fantasia" degli interpreti fornendo nuove spiegazioni che crede essere le soluzioni definitive del problema, come da ultima quella della creazione del "danno da uccisione".
In tal modo, però, si ignora il fatto che il problema della risarcibilità della vita non potrà mai essere accantonato da queste soluzioni palliative ma, in maniera ciclica, così come ha sempre fatto, riemergerà fin quando non verrà elaborata una soluzione che renda veramente giustizia al diritto alla vita.
Uno dei punti più controversi è quello in riferimento all’ammissibilità del risarcimento iure successionis del danno tanatologico, espressione con cui si fa riferimento a quella tipologia di danno derivante dalla morte di un individuo a causa della condotta illecita di un terzo. Sulla risarcibilità (o meno) di tale specie di danno, che rientra nell'alveo dell'unitaria categoria del danno non patrimoniale disciplinata ai sensi dell'art. 2059 del c.c., tanto la dottrina quanto la giurisprudenza si sono spesso interrogate, e continuano ancor oggi ad interrogarsi, senza, però, giungere ad una qualche soluzione stabile al riguardo.
A ben vedere però, la tesi accolta dall’autorità nomofilattica nel corso del tempo, al di là di quel singolo caso risalente alla pronuncia n. 1361/2014, con cui ha aperto, seppur per un breve lasso di tempo, le porte al danno tanatologico, si fonda su di un’idea negazionista che sposa, in sintesi, l’idea che nel danno da morte si discute sì del risarcimento da perdita della vita, ma, se la morte è immediata, il danno consistente in quella perdita non è risarcibile perché, nel momento in cui il diritto sorge, il suo titolare viene meno. Di conseguenza, il risarcimento, non potendo andare a beneficio del danneggiato, morto immediatamente, non può avere funzione risarcitoria.
Si tratta di argomenti non del tutto chiari, ai quali possono essere contrapposte soluzione assolutamente differenti senza perciò apparire prive di giustificazione, che mettono in discussione la stessa importanza del diritto alla vita fornita dall’art. 2 Cost. e dall’art. 2 CEDU, vita che non ottiene giustizia in tali ipotesi perché intrappolata in congetture del passato (come ad esempio quella della funzione affidata alla responsabilità civile), volte ad escludere una tale risarcibilità senza dar ascolto alla voce della coscienza sociale.
Allora una domanda sorge spontanea: il diritto alla vita esplicitamente consacrato e protetto da molteplici fonti va preso sul serio nell’ordinamento italiano oppure finisce con l’assumere le sembianza di una nobile dichiarazione di principio, con una valenza concreta circoscritta? La risposta che emerge da un accurato studio su detto tema, passando dalle pronunce più remote, giungendo a quelle di recente data, al fine di ritrovare risposte plausibili che escludessero qualsiasi margine di perplessità in merito a tale esclusione, è di certo, a mio avviso, che in caso di danno da morte istantanea, il diritto alla vita diventa una "mera utopia" nel nostro ordinamento.
Si determina un assoluto paradosso che di certo non potrà scomparire neppure di fronte agli sforzi della Suprema Corte, la quale cerca di far apparire il danno tanatologico come una mera "fantasia" degli interpreti fornendo nuove spiegazioni che crede essere le soluzioni definitive del problema, come da ultima quella della creazione del "danno da uccisione".
In tal modo, però, si ignora il fatto che il problema della risarcibilità della vita non potrà mai essere accantonato da queste soluzioni palliative ma, in maniera ciclica, così come ha sempre fatto, riemergerà fin quando non verrà elaborata una soluzione che renda veramente giustizia al diritto alla vita.