La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28796 del 30 novembre 2017, ha fornito alcune precisazioni in tema di licenziamento disciplinare.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, l’Agenzia delle Entrate aveva contestato ad un proprio dipendente la violazione di una serie di obblighi previsti dal contratto collettivo di categoria (tra cui la violazione del segreto di ufficio e del divieto di utilizzare a fini privati informazioni di cui disponeva per ragioni di ufficio).
Il lavoratore veniva, dunque, sottoposto a procedimento disciplinare e, all’esito dello stesso, veniva licenziato.
Il dipendente procedeva, dunque, ad impugnare il licenziamento ma il Tribunale di Reggio Emilia, pronunciatosi in primo grado, aveva confermato la legittimità del licenziamento, che veniva ribadita, altresì, dalla Corte d’appello di Bologna.
Secondo la Corte d’appello, in particolare, risultava accertato che il lavoratore avesse “acceduto al sistema informatico dell’Agenzia delle Entrate di Reggio Emilia” e che avesse “divulgato a terzi le notizie relative a posizioni estranee al suo lavoro ed al gruppo dal medesimo coordinato”.
Secondo la Corte, dunque, il licenziamento era stato proporzionato ai fatti contestati, tenuto conto della gravità della condotta, che era stata “idonea a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario, vincolo che una sanzione meramente conservativa non avrebbe potuto ricostituire”.
Ritenendo la decisione ingiusta, il dipendente aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, infatti, la Corte d’appello, nel confermare la legittimità del licenziamento, non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 2106 c.c. e alle disposizioni del contratto collettivo di categoria.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione al dipendente e rigettava il relativo ricorso, in quanto infondato.
Precisava la Cassazione, sul punto, che, “tra gli obblighi imposti al lavoratore” vi era quello di “rispettare il segreto d’ufficio”, “di non utilizzare a fini privati le informazioni di cui disponga per ragioni d’ufficio” e “di non valersi di quanto è di proprietà dell’Agenzia per ragioni non di servizio”.
Ebbene, nel caso di specie, secondo la Cassazione, la Corte d’appello, “nella formulazione del giudizio di proporzionalità e di gravità della condotta” aveva, del tutto adeguatamente, “tenuto conto delle funzioni affidate” al lavoratore e “della natura dei dati divulgati all’esterno”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal dipendente, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.
La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento intimato ad un dipendente dell'Agenzia delle Entrate che aveva violato l'obbligo di segreto d'ufficio previsto dal contratto collettivo.