Il caso sottoposto all’esame della Cassazione ha avuto come protagonista un lavoratore, che aveva agito in giudizio al fine di veder dichiarata l’illegittimità del licenziamento che gli era stato intimato “per aver fruito indebitamente di un riposo compensativo, conseguente a dedotti impegni elettorali”.
Nello specifico, il dipendente era stato licenziato in quanto, secondo la datrice di lavoro, durante il permesso il lavoratore non avrebbe, in realtà, svolto alcuna attività elettorale, “essendosi piuttosto presentato regolarmente al lavoro”.
L’impugnazione del licenziamento era stata rigettata in primo grado ma la sentenza era stata ribaltata in grado d’appello, con la conseguenza che la società datrice di lavoro aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover dar ragione alla datrice di lavoro, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Osservava la Corte, infatti, che, nel caso in esame, appariva pacifico che il lavoratore, “pur non avendo svolto alcuna attività elettorale, consentita dall'ordinamento (D.P.R. n. 361 del 1957)”, aveva consegnato all’azienda un certificato, “da cui risultava invece falsamente (…) tale attività”, “chiedendo ed usufruendo pertanto illegittimamente di un giorno di riposo compensativo”.
Ebbene, tale comportamento, secondo la Cassazione, non poteva ricondursi ad un semplice “disguido o confusione sulla data di rientro al lavoro (…), nè ad una mera assenza ingiustificata”.
Al contrario, secondo la Corte, doveva ritenersi che il lavoratore avesse consapevolmente utilizzato un attestato falso, “al fine di usufruire di un riposo compensativo non spettante, ipotesi certamente ricomprensibile nel concetto di giusta causa previsto dalla legge”.
Rilevava la Cassazione, dunque, come la Corte d’appello non avesse adeguatamente valutato “il principio che il consapevole utilizzo di un falso certificato al fine di poter godere, peraltro in un momento di dedotto maggior bisogno lavorativo per l'azienda, di un giorno di riposo non spettante, può concretare il concetto di giusta causa previsto dall'art. 2119 c.c.”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, annullando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima decidesse nuovamente sulla questione, sulla base dei principi sopra enunciati.