Al fine di comprendere tale recente approdo giurisprudenziale è tuttavia necessario ricordare che l’Associazione Bancaria Italiana, nel lontano 2002, ha predisposto uno schema negoziale standard per la stipula delle fideiussioni omnibus, il c.d. schema ABI.
All’esito di un’indagine amministrativa, tuttavia, la Banca d’Italia – con il provvedimento n. 55/2005 – ha dichiarato tale schema frutto di un’intesa violativa della concorrenza.
In particolare, l’Autorità di vigilanza ha rilevato l’illegittimità delle clausole:
- di reviviscenza (clausola n. 2), secondo la quale il fideiussore è tenuto a “rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi o per qualsiasi altro motivo”;
- di rinuncia ai termini (clausola n. 6), in forza della quale “i diritti derivati alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall’art. 1957 c.c.”;
- di sopravvivenza (clausola n. 8), secondo la quale “qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l’obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate”.
La norma citata, tuttavia, si limita a disporre che “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”, senza specificare di quali rimedi disponga il consumatore, il quale abbia stipulato un contratto in recepimento dell’intesa anticoncorrenziale.
Questo, dunque, è il contesto nel quale si è determinata la recente rimessione alle Sezioni Unite, alla luce di un serio contrasto giurisprudenziale e dottrinale relativi alla sorte del contratto di fideiussione stipulato secondo lo schema ABI.
In particolare, sulla questione si sono formati tre diversi orientamenti:
- una prima soluzione era quella della nullità totale del contratto a valle;
- una seconda tesi era invece quella della nullità parziale di tale contratto, limitatamente alle clausole che riproducono le condizioni dell'intesa nulla a monte;
- un terzo orientamento, infine, ammetteva unicamente la tutela risarcitoria in favore del consumatore, configurandosi il contratto a valle come valido e lecito.
Orbene, con il provvedimento citato le Sezioni Unite si sono finalmente espresse sulla questione, optando nello specifico per la tesi della nullità parziale.
Nella motivazione della sentenza, infatti, è possibile leggere come “tra le diverse soluzioni individuate da dottrina e giurisprudenza, quella che perviene a risultati più in linea con le finalità e gli obiettivi della normativa antitrust sia la tesi della nullità parziale”.
Sulla scorta di tali principi, deve pertanto rilevarsi la nullità ex art. 1419 c.c. delle sole clausole che riproducono – dando vita ad un collegamento funzionale – quelle dello schema contrattuale che costituisce l’intesa vietata, vigendo per il resto il principio di conservazione a meno che non sia provata una diversa volontà delle parti. È dunque onere del soggetto che intende travolgere l’intero contratto provare che esso non sarebbe stato stipulato in assenza della clausola nulla.