La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 32533 del 18 luglio 2017, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Lecce, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato un medico di base per il tentativo di “violenza privata” (art. 610 cod. pen.), nonché per la commissione del reato di “rifiuto di atti d’ufficio”, di cui all’art. 328 cod. pen.
Secondo la Corte d’appello, in particolare, sulla base delle prove raccolte nel corso del procedimento, risultava accertato che, in più occasioni, l’imputato aveva indebitamente rifiutato di prescrivere farmaci alla persona offesa, dei quali la stessa aveva assoluto bisogno, essendo appena stata sottoposta ad intervento chirurgico al seno.
Nello specifico, il medico, in una occasione, aveva anche tentato di spingere la paziente fuori dallo studio, come confermato dalla dichiarazione di una testimone.
Ritenendo la decisione ingiusta, il medico aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolare, non era stata provata la “doverosità ed indifferibilità delle prescrizioni” in favore della persona offesa, dal momento che la stessa “aveva ancora a disposizione i farmaci prescrittile in precedenza e nel pomeriggio della visita avrebbe dovuto recarsi dall’oncologo, che avrebbe potuto cambiarle la terapia”.
Evidenziava il ricorrente, inoltre, che era stata la paziente stessa a dare una spinta alla porta dello studio, per cercare di parlare con il medico, nonostante l’ambulatorio fosse chiuso.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione all’imputato, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, in proposito, che le visite nello studio del medico erano dettate “oltre che dalla necessità di ottenere la prescrizione dei farmaci per la prosecuzione della terapia antitumorale in corso, anche dall’intento di chiarirne l’atteggiamento di chiusura nei suoi confronti”, che le era stato manifestato mediante l’invio di un biglietto con cui il medico le aveva anticipato l’intenzione di non voler più essere il suo medico curante.
La Corte d’appello, inoltre, secondo la Cassazione, aveva accertato che le visite della paziente avvenivano in orario di apertura al pubblico dello studio, “non essendo verosimile che l’accesso all’ambulatorio fosse possibile anche in orario di chiusura, tanto più che l’imputato aveva, a suo dire, l’abitazione nei medesimi locali”.
Osservava la Cassazione, inoltre, che la giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione ha precisato che sussiste il reato di “rifiuto di atti d’ufficio” ogni volta che venga negato “un atto non ritardabile alla luce di esigenze prese in considerazione e protette dall’ordinamento”, a prescindere “dal concreto esito dell’omissione” (Cass. civ., sentenza n. 3599 del 1997).
Ebbene, nel caso in esame, secondo la Cassazione, era stato accertato che la paziente, nel momento in cui si era recata dal medico, aveva finito i farmaci e che, dopo che la paziente aveva chiesto l’intervento dei Carabinieri, il medico aveva rilasciato la prescrizione richiesta, confermando, così, “la legittimità e la non pretestuosità della richiesta della paziente”.
Pertanto, secondo la Cassazione, il complesso delle circostanze accertate e descritte nella sentenza impugnata faceva emergere “una situazione di urgenza sostanziale”, che imponeva il compimento della prescrizione da parte del medico, il quale, invece, aveva consapevolmente rifiutato di eseguirla.
Ciò considerato, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato, confermando integralmente la sentenza della Corte d’appello e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.