Nel caso sottoposto all’esame della Cassazione, la Corte d'appello di Genova, in riforma della sentenza di primo grado, resa dal Tribunale della stessa città, aveva dichiarato la risoluzione del contratto di mediazione stipulato tra un soggetto ed una società di mediazione immobiliare (avente ad oggetto la vendita di alcuni box auto), in considerazione dell’inadempimento del cliente.
Nello specifico, la Corte d’appello aveva evidenziato come il cliente avesse revocato alla società l’incarico di mediazione dopo soli 21 giorni dal conferimento dello stesso, in evidente violazione dei principi di correttezza e buona fede.
La Corte, dunque, aveva condannato il cliente al risarcimento del danno da “mancato guadagno” cagionato alla società, quantificato in 135.300 euro.
Ritenendo la decisione ingiusta, il cliente aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, lamentando la violazione dell’art. 1223 c.c.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover aderire alle considerazioni svolte dal cliente, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Osservava la Cassazione, in proposito, che il “danno patrimoniale da mancato guadagno (…) presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell'utilità patrimoniale che il creditore avrebbe conseguito se l'obbligazione fosse stata adempiuta, esclusi solo i mancati guadagni meramente ipotetici perchè dipendenti da condizioni incerte”.
Pertanto, secondo la Corte, la liquidazione di tale danno “richiede un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità), che può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente”, dai quali il giudice desumere l'entità del danno subito.
Ebbene, nel caso di specie, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva riconosciuto il danno da mancato guadagno, “parametrandolo alle provvigioni che la società di mediazione avrebbe incassato ove avesse portato a termine l'incarico”, rilevando che la società in questione “in tre settimane aveva raccolto ben otto proposte d'acquisto” e ritenendo, dunque, “altamente probabile che, ove l'accordo di mediazione avesse avuto regolare esecuzione, tutti i box sarebbero stati venduti entro il termine (ulteriori dieci mesi) di validità dell'incarico”.
Secondo la Cassazione, tuttavia, tale ragionamento non poteva considerarsi corretto, dal momento che il giudice d’appello aveva ancorato il giudizio di “alta probabilità” ad un “dato di fatto tutt'altro che significativo, rappresentato da mere proposte d'acquisto, che possono anche non essere accettate dal venditore”.
Osservava la Corte, infatti, che le proposte di acquisto “non sono automaticamente destinate a sfociare nella vendita e neppure a far sorgere un vincolo giuridico tra le parti”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dal cliente della società di mediazione, annullando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima procedesse ad un nuovo esame della questione, sulla base dei principi sopra enunciati.