Ebbene, la Cassazione innanzitutto ricorda che la norma di riferimento per quanto riguarda l’incapacità a testimoniare è l'art. 246 c.p.c., che vieta di assumere come testimoni le persone che hanno nella causa un interesse: tale norma è di grande importanza per lo svolgimento della fase istruttoria nel processo civile in quanto il mancato rispetto di questo divieto comporterà la nullità relativa delle testimonianze rese dai portatori di interessi personali.
La ratio di siffatta previsione va ravvisata nel principio di incompatibilità tra la posizione di parte (anche solo potenziale) e di testimone, principio espresso dal celebre brocardo nemo testis in causa propria.
Ciò premesso, la Suprema Corte precisa che l'interesse in causa di cui parla la norma citata coincide con quello di cui all'art. 100 c.p.c., che costituisce una delle condizioni determinanti la c.d. ipotetica accoglibilità della domanda. L'interesse che impedisce la testimonianza deve, perciò, essere personale, concreto ed attuale, tanto da legittimare una partecipazione a quel giudizio mediante intervento principale, adesivo autonomo o adesivo dipendente.
Non rilevano, quindi, ai fini dell’incapacità del teste:
- l’interesse di mero fatto;
- l’interesse riferito ad un’azione ipotetica che egli potrebbe promuovere ma distinta da quella, attualmente pendente, nell’ambito della quale viene assunta la testimonianza.
La Corte, infine, ha puntualizzato che la sussistenza di rapporto di parentela tra il teste e una o più delle parti in causa:
- non è più causa di divieto a testimoniare a seguito della sentenza n. 284/1994 della Consulta;
- non è di per sé indice di non credibilità delle disposizioni (pur potendo comunque rilevare, insieme ad altri elementi concreti accertati, ai fini della verifica della maggiore o minore attendibilità).
Il caso specificamente sottoposto all’attenzione della Corte traeva origine dalla domanda giudiziale di rilascio riguardante un terreno proposta dal soggetto che si affermava proprietario dello stesso. I soggetti convenuti avevano dunque proposto una domanda riconvenzionale, affermando di aver acquistato il terreno conteso mediante usucapione.
Il Tribunale, svolta l’istruttoria ed escussi alcuni testimoni (tra cui il figlio di uno dei convenuti che coadiuvava l’azienda paterna), aveva rigettato la domanda dell’attore e accolto la domanda riconvenzionale dei convenuti.
L’attore, quindi, aveva proposto impugnazione ma la Corte distrettuale aveva confermato la sentenza di prime cure.
Il soccombente, allora, non si era arreso e aveva proposto ricorso in Cassazione, dolendosi – per quanto qui di interesse – della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c. in quanto i giudici di merito avevano ritenuto decisiva la testimonianza resa da un soggetto incapace. Ritenendo tale censura inammissibile, la Corte ha dunque espresso i principi sopra esaminati.