La pensione di reversibilità è un trattamento economico riconosciuto dall’INPS ai familiari superstiti di una persona deceduta che era titolare di pensione: è una quota della pensione che percepiva il defunto. Invece, si parla di pensione indiretta se il defunto non era ancora pensionato, ma aveva conseguito il diritto al trattamento previdenziale (poiché aveva perfezionato i necessari anni di anzianità assicurativa e contributiva).
L’invalidità civile riguarda le persone con menomazioni fisiche, intellettive e psichiche con una permanente incapacità lavorativa non inferiore ad un terzo. In base al livello di gravità accertato dalla Commissione medica dell’ASL competente, si parla di invalidità lieve (dal 33% al 66%), medio-grave (dal 67% al 99%) o di non autosufficienza (con il 100%).
Da non confondere con lo stato di handicap ai sensi della Legge 104/1992. L’art. 3 della legge 104 stabilisce che lo stato di handicap è riconosciuto a chi ha una minorazione fisica psichica o sensoriale, stabile o progressiva (destinata ad aggravarsi con il tempo), la quale è causa di difficoltà di apprendimento, relazione o integrazione sul posto di lavoro.
Allora, la percentuale di invalidità incide o meno sulla reversibilità?
La pensione di reversibilità è rivolta ai seguenti soggetti:
- al coniuge o all’unito civilmente (si perde il diritto con nuove nozze o unione civile);
- al coniuge separato o divorziato (se è titolare dell’assegno divorzile, non ci sono state nuove nozze e la data di inizio del rapporto assicurativo del defunto è precedente alla sentenza di divorzio);
- ai figli minorenni;
- ai figli maggiorenni studenti a carico: quelli che fino a 21 anni non lavorano e frequentano scuole o corsi di formazione professionale, nonché quelli che per la durata legale del corso di studi e non oltre i 26 anni non lavorano e frequentano l’università;
- in mancanza di coniuge e figli, ai genitori del defunto con 65 anni, che non siano titolari di pensione e risultino a carico del deceduto;
- in assenza di coniuge, figli o genitore, ai fratelli e sorelle non sposati del deceduto inabili al lavoro e non titolari di pensione e siano a carico del defunto.
Inoltre, la pensione di reversibilità è riconosciuta ai figli inabili al lavoro e a carico del genitore al momento della morte, indipendentemente dall’età.
Ai fini della reversibilità, per i figli, è necessario il riconoscimento dell’invalidità?
Per i figli, non è richiesto il riconoscimento dell’invalidità civile in nessuna percentuale, ma è necessaria la totale inabilità lavorativa. La Cassazione (con sentenza n. 27448 del 2017) ha precisato che, al momento della morte del soggetto, il superstite deve trovarsi nell’assoluta e permanente impossibilità di compiere qualsiasi attività lavorativa. Secondo la normativa (art. 8 della L. 222/1984), tale impossibilità deve derivare da un’infermità o da un difetto fisico o mentale.
Lo svolgimento dell’attività lavorativa esclude la totale inabilità. Però, c’è un’eccezione: la legge (l’art. 46 della L. 31/2008) stabilisce che l’attività lavorativa terapeutica, fino a 25 ore settimanali presso cooperative sociali o datori di lavoro che assumono disabili, non preclude l’assegno di reversibilità.
Peraltro, il superstite inabile deve risultare a carico del defunto. Ciò si ha se il superstite è in condizione di “non autosufficienza economica” (quando egli non supera un certo livello di reddito annuo) e il defunto provvedeva al suo mantenimento abituale.
Per accertare tale condizione, bisogna guardare alla convivenza del superstite con il defunto. Se il superstite inabile conviveva con il deceduto, l’INPS non verifica il mantenimento abituale. Invece, se il superstite non conviveva, occorre controllare se il defunto contribuiva in modo continuo e rilevante al sostentamento del superstite (anche se non è richiesto che il defunto provvedesse in via esclusiva al sostentamento).