La vicenda aveva preso avvio dal
ricorso proposto da un lavoratore nei confronti della
società datrice di
lavoro, al fine di ottenere l’accertamento della
nullità del patto di prova della durata di sei mesi che era stato apposto al
contratto di lavoro prima della sua partenza per la Colombia. Sia il giudice del lavoro del Tribunale di Parma che la Corte d’
appello di Bologna avevano respinto la domanda e così il lavoratore aveva presentato ricorso in Cassazione.
La Corte di Cassazione si è pronunciata con l’
ordinanza 9789/2020, accogliendo il ricorso.
La Suprema Corte ha innanzitutto evidenziato che la fattispecie in esame è assoggettata all'applicabilità della L. 3 ottobre 1987, n. 398, in materia di tutela dei lavoratori italiani operanti nei Paesi extra-comunitari, e non è consentito al
giudice derogare a quanto prescritto dalla
legge. Tale legge stabilisce che il "trattamento economico normativo offerto" deve essere "complessivamente non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro vigenti in Italia per la categoria di appartenenza del lavoratore".
La Corte di Cassazione ha osservato che l’istituto del patto di prova non presenta connotati tali da non potere essere applicato allo stesso modo sia in Italia che in un Paese estero.
Già in passato la giurisprudenza aveva affermato che
“la clausola del contratto individuale di lavoro con cui sia previsto un periodo di prova di durata maggiore di quella massima prevista dal contratto collettivo applicabile al rapporto - fermo restando il limite di sei mesi di cui all'art. 10 della legge n. 604 del 1966 - può ritenersi legittima solo nel caso in cui la particolare complessità delle mansioni di cui sia convenuto l'affidamento al lavoratore renda necessario, ai fini di un valido esperimento e nell'interesse di entrambe le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto congruo dalle parti collettive per la normalità dei casi”. In questi casi, dal momento che la maggior durata del periodo di prova attribuisce al
datore di lavoro una più ampia
facoltà di licenziare il lavoratore per il mancato superamento della prova, sarà poi un suo onere provare tale situazione di necessità e reciproco interesse.
Il codice civile, all’art.
2096, richiede per il patto di prova la
forma scritta ad substantiam, con la conseguenza che, se tale
forma manca, la clausola si deve avere per non apposta. Questa norma è posta a tutela del contraente più debole e vede con sfavore il patto di prova, perché eccezionale rispetto alle tutele assicurate al lavoratore dal contratto a tempo indeterminato, soprattutto per quanto riguarda il recesso.
Anche secondo la Suprema Corte, “il lavoratore ha interesse a che il periodo di prova sia minimo, o comunque non superi il tempo strettamente necessario alla verifica della sua capacità tecnico professionale”; di conseguenza, in linea di principio, i patti che prolunghino la durata della prova rispetto a quanto stabilito dai contratti collettivi sono nulli.
Alla luce di queste premesse, la clausola del
contratto individuale che preveda un patto di prova avente un termine maggiore di quello stabilito dalla contrattazione collettiva deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore e, in quanto tale, va
sostituita di diritto ex art.
2077 comma 2 c.c., sempre che il prolungamento non si riveli stabilito anche a favore del lavoratore; in quest’ultimo caso, comunque, l’
onere probatorio grava sul datore di lavoro.
Per questi motivi, la Suprema Corte ha cassato la
sentenza impugnata e rinviato il giudizio alla Corte d'appello di Bologna per una nuova valutazione.