La vicenda sottoposta all’esame della Corte di legittimità vedeva come protagonista un medico che, in seguito al decesso di una sua paziente, a causa di un’insufficienza cardiocircolatoria acuta da trombo embolia polmonare massiva, dovuta ad una trombosi venosa profonda, era stato condannato, in entrambi i gradi del giudizio di merito, per il reato di omicidio colposo ex art. 589 del c.p., per non aver prescritto e somministrato alla paziente l’adeguata profilassi anti-trombotica a base di derivati eparinici, i quali, se somministrati, avrebbero potuto evitare l’evento morte. Tale condanna, peraltro, era stata emessa nonostante i consulenti tecnici nominati dal Pubblico Ministero avessero chiarito come non si potesse ritenere doverosa la somministrazione di eparina, considerato sia che la stessa non sarebbe, comunque, stata in grado di annullare il rischio di trombosi venosa, sia che la paziente, nel caso concreto, era immobile da tre giorni ed era affetta da grave anemia, dalla presenza di sangue nelle urine e da una sospetta gastrite erosiva, o, comunque, da una lesione ulcerosa gastrica.
Di fronte alla propria condanna, l’imputato ricorreva in Cassazione, eccependo, in primo luogo, la lacuna motivazionale della sentenza d’appello in merito alla causa del decesso della paziente. Sulla base dell’istruttoria, infatti, non era escluso che tale decesso fosse derivato da un’embolia della vena cava invece che da una trombosi venosa negli arti inferiori, e, quindi, da un evento imprevedibile ed inevitabile o, comunque, non collegabile alla condotta del sanitario.
Secondo il ricorrente la motivazione della sentenza impugnata risultava, inoltre, essere carente anche in relazione all’interpretazione dell’art. 40 del c.p., in ordine all’assunzione di una posizione di garanzia da parte sua, in quanto lo stesso aveva un contratto lavorativo di sole 22 ore settimanali e, quindi, aveva visitato la paziente soltanto due volte, tanto da non essere stato presente nemmeno nel momento del ricovero.
La stessa motivazione, secondo il medico, era, poi, viziata in quanto non era stato accertato, con un dovuto giudizio controfattuale, se e con quali probabilità la somministrazione di eparina avrebbe impedito la morte della paziente, alla luce anche di quanto emerso dalla relazione del consulente del Pubblico Ministero.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, giudicando meritevole di accoglimento il terzo motivo di doglianza, avente ad oggetto il vizio motivazionale e la violazione dell’art. 40 del c.p. in relazione, sia alla sussistenza di un nesso di causalità, che sarebbe stata affermata dai giudici di merito nonostante l’assenza di un adeguato giudizio controfattuale, sia all’effettiva doverosità della somministrazione di eparina.
A tal proposito gli Ermellini hanno, preliminarmente, ribadito come, secondo il costante orientamento giurisprudenziale, avallato anche dalle Sezioni Unite della stessa Cassazione, “nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento con si può ritenere sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato in base ad un giudizio di probabilità logica, in modo tale che esso risulti configurabile soltanto qualora si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva, mentre l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo comportano l’esito assolutorio del giudizio” (Cass. Pen., SSUU, n. 30328/2002).
Alla luce di tali principi secondo cui, quindi, il giudice è tenuto a verificare, in base ad un meccanismo controfattuale, che l’azione doverosa omessa avrebbe impedito l’evento, secondo un giudizio di alta probabilità logica, fondato non solo su affidabili informazioni scientifiche, ma anche sulle caratteristiche del caso concreto, la motivazione fornita dai giudici d’appello non può che risultare lacunosa nella parte in cui si limita ad affermare l’esistenza del nesso causale, basandosi esclusivamente su un mero dato statistico, senza dare rilievo al caso concreto, ossia alle specifiche condizioni del paziente affidato alle cure del sanitario.
Oltre a ciò, gli Ermellini hanno rilevato come la sentenza d’appello risulti parimenti lacunosa anche in ordine all’individuazione dell’effettiva elevata probabilità logica dell’efficacia salvifica delle cure omesse, individuata in termini generici nella significativa riduzione del rischio di verificazione della complicanza trombo-embolica, senza fornire, però, alcuna risposta alle doglianze espresse sul punto dall’imputato.
Secondo la Corte, infatti, i giudici di merito hanno escluso, in modo assolutamente illogico e contraddittorio, la sussistenza pregressa, nella paziente, di un rischio emorragico, come era stato allegato dalla difesa. Essi si sono, infatti, attenuti alle indicazioni fornite dai consulenti della pubblica accusa fondate sulle linee guida del 2011, le quali indicavano soltanto alcune delle condizioni a cui si ricollega un rischio emorragico, tra le quali non figuravano quelle che, nel caso concreto, interessavano la paziente deceduta. Alla luce di ciò la Suprema Corte non ha potuto far altro che ribadire come l’esistenza di linee guida non possa escludere che il medico, sulla base dello specifico quadro clinico del paziente a lui affidato, possa individuare altri elementi che possano concretamente determinare un rischio di emorragia. A sostegno di tale posizione, i giudici di legittimità hanno richiamato il loro costante orientamento, in base al quale "in tema di responsabilità medica, il rispetto delle linee guida accreditate presso la comunità scientifica non determina, di per sé, l'esonero della responsabilità penale del sanitario ai sensi dell’art. 3 del D.L. 13 settembre 2012, n. 158 (conv. in legge 8 novembre 2012, n. 189), dovendo comunque accertarsi se la specificità del quadro clinico del paziente imponesse un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato dalle linee guida" (Cass. Pen., n. 244555/2015).