Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato un imputato per il reato di “maltrattamenti in famiglia”, commesso in danno della propria convivente.
Ritenendo la condanna ingiusta, l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Osservava il ricorrente, infatti, che il reato in questione non poteva dirsi configurato, dal momento che, al momento della commissione del fatto contestato, il rapporto di convivenza tra lui e la persona offesa era già cessato, con la conseguenza che era venuto a mancare uno degli elementi essenziali del reato oggetto di contestazione.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione all’imputato, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Precisava la Cassazione, in particolare, che condizione essenziale affinché possa dirsi realizzato il reato di maltrattamenti in famiglia è “la sussistenza di una situazione giuridica, derivante dal vincolo matrimoniale, o di fatto, nell’ipotesi di una condizione di convivenza o della presenza di stabili relazioni affettive”, dalle quali derivi “l’affidamento reciproco e la presenza di vincoli di assistenza, protezione e solidarietà, per effetto del comune sviluppo personale psicologico che in tali comunità si verificano”.
Ebbene, nel caso di specie, la Corte d’appello aveva dato corretta applicazione ai principi sopra enunciati, ritenendo che fosse stato provato il rapporto di convivenza tra l’imputato e la persona offesa fino al 2011, dal momento che i due, pur avendo cessato di coabitare dal 2009, avevano comunque continuato la loro relazione sentimentale, “frequentandosi nel comune ambito di lavoro e presso le rispettive abitazioni”.
Secondo la Cassazione, inoltre, la Corte d’appello aveva del tutto correttamente ritenuto provata “un’abituale condotta di maltrattamenti posta in essere dall’imputato”, sulla base dei diversi referti medici che erano stati prodotti dalla persona offesa, che attestavano le lesioni da questa subite.
Rilevava la Cassazione, inoltre, che il comportamento aggressivo e violento dell’imputato non si risolveva in “occasionali scatti d’ira, causati dalla gelosia”, essendo il ricorrente solito offendere e umiliare la compagna, cagionandole “uno status psicologico caratterizzato da paura e terrore continui, ansia e senso di impotenza”.
Ciò premesso, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato, confermando integralmente la sentenza di condanna di secondo grado e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.