Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Genova, in riforma della sentenza di primo grado, pronunciata dal Tribunale della stessa città aveva assolto un imputato dal reato di “maltrattamenti in famiglia” in danno della moglie, la quale si era detta vittima di percosse, ingiurie e condotte umilianti da parte del marito.
Secondo la Corte d’appello, in particolare, il reato non poteva dirsi configurato in quanto non sussisteva un rapporto di stabile convivenza tra l’imputato e la persona offesa.
Ritenendo la decisione ingiusta, la moglie aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Osservava la ricorrente, in particolare, che la Corte d’appello avrebbe errato nell’assolvere l’imputato sulla base del fatto che non sussisteva un rapporto di stabile convivenza tra lei e l’imputato, dal momento che i due erano sposati (pur essendo separati legalmente) e vi erano stati, comunque, tra loro “significativi periodi di convivenza”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione alla ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Precisava la Cassazione, in particolare, che, ai fini della configurabilità del reato di “maltrattamenti in famiglia”, “l'esistenza di un vincolo matrimoniale esclude la necessità della sussistenza di un rapporto di stabile convivenza” tra autore e vittima del reato.
In tal senso, infatti, si è espressa la stessa Corte di Cassazione, da ultimo con la sentenza n. 30934 del 23 aprile 2015.
Tuttavia, proseguiva la Corte, il reato di cui all’art. 572 c.p. richiede una condotta vessatoria che sia posta in essere in modo continuativo, pur potendo la medesima essere alternata a “periodi di "calma"”.
Secondo la Cassazione, la condotta dell’autore del reato deve essere “fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita”. In caso contrario, infatti, mancherebbe “l'abitualità del comportamento”, che è elemento essenziale del reato in questione.
Ebbene, nel caso di specie, la Cassazione osservava che la Corte d’appello aveva accertato “l'insussistenza di un rapporto di «predominanza» di un partner sull'altro e di una situazione di «vessazione» della vittima”, con la conseguenza che la stessa era, del tutto correttamente, giunta alla conclusione di dover assolvere l’imputato.
Osservava la Cassazione, peraltro, che, dopo i primi contrasti coniugali, era stato proprio l’imputato a chiedere la separazione dalla moglie-persona offesa e che quest’ultima aveva, successivamente, continuato a cercare il marito, per convincerlo a tornare con lei.
Ciò considerato, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla moglie dell’imputato, confermando integralmente la sentenza di assoluzione di secondo grado.