Il caso passato al vaglio della Corte Costituzionale ha avuto origine dalla condanna nei confronti di un soggetto che aveva denunciato di aver subito una
violenza sessuale da parte di un altro soggetto, sapendo che quest’ultimo era innocente. A seguito dell’archiviazione, era stato avviato contro di lui un giudizio per
calunnia, conclusosi con una
sentenza di patteggiamento a due anni e quattro mesi di
reclusione.
Nel primo
giudizio, che lo vedeva parte in qualità di
persona offesa, egli si era avvalso del
gratuito patrocinio di un legale, il quale, una volta apertosi il giudizio per calunnia, aveva proposto nei suoi confronti
istanza di liquidazione delle spese per il lavoro svolto.
In sede di
indagini preliminari, il GIP del Tribunale di Macerata aveva osservato che, una volta emanato il decreto di ammissione al gratuito patrocinio,
non vi è alcuna possibilità di revocarlo con efficacia retroattiva. Secondo il suo punto di vista, tuttavia, sarebbe stato incongruo negare quella liquidazione alla luce del fatto che la persona che si reputava offesa dal
reato e che si era avvalsa del gratuito patrocinio aveva proposto denuncia per un reato che si era rivelato insussistente. Oltretutto, in questo modo lo Stato si trova a sostenere i costi di chi prima commette reato di calunnia, e poi addossa alla collettività la spesa della sua azione illecita.
Pertanto, il
giudice per le indagini preliminari ha sollevato
questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 112 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia) nella parte in cui non prevede la possibilità di revoca del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in caso di “acclarata mancanza della veste di persona offesa” dei reati di cui all’art. 76, comma 4-ter, del medesimo testo unico.
In particolare, secondo il giudice
a quo, nel caso in cui il beneficiario del gratuito patrocinio abbia commesso reato di calunnia nei confronti di un soggetto che sapeva innocente, incolpandolo di reati rispetto ai quali assumeva la veste di persona offesa, la norma incriminata, non consentendo la revoca del beneficio con efficacia retroattiva, si porrebbe in contrasto con l’art.
3 Cost.
La Corte Costituzionale si è espressa con la
sentenza n. 47/2020, dichiarando il ricorso
inammissibile.
La Consulta ha innanzitutto ricordato quali sono i casi in cui, ai sensi del d.P.R. n. 115/2002, può essere disposta la
revoca del decreto di ammissione al gratuito patrocinio in un
processo penale, ossia: mancanza - originaria o sopravvenuta - delle condizioni reddituali richieste; inosservanza dei termini entro cui devono essere comunicate eventuali variazioni dei limiti di reddito o depositati determinati documenti (art. 112); condanna per il reato di falsità e/o omissioni nella dichiarazione sostitutiva di
certificazione o nelle dichiarazioni, nelle indicazioni e nelle comunicazioni disciplinate dall'art. 79, comma 1, lettere b), c) e d) (art. 94).
La Corte ha poi evidenziato come la
disciplina di ammissione al gratuito patrocinio in sede di processo penale sia
diversa rispetto a quella prevista per altri tipi di processo (civile, amministrativo, contabile, tributario e di
volontaria giurisdizione), in quanto, in questi ultimi, la concessione di tale beneficio è subordinata ad una valutazione sulla non manifesta infondatezza delle ragioni fatte valere dal beneficiario, poiché il fine è quello di scoraggiare la proposizione di richieste temerarie che vadano ad aggravare inutilmente il carico dei processi. Diversamente, nel processo penale non vi è questo tipo di filtro, in quanto l’azione è rivolta nei confronti di un soggetto che rischia di veder compromessa la sua
libertà personale e ciò giustifica una sua più intensa protezione; è opportuno, quindi, rimuovere ogni tipo di ostacolo economico all’esercizio delle prerogative difensive dell’individuo, anche di quelle della
persona offesa dal reato.
Tuttavia è pure vero che, a fronte di una
condotta calunniosa,
l’esigenza di tutelare il diritto di difesa viene meno, dato che l’asserita persona offesa, invece che controllare e supportare il
pubblico ministero nel suo operato, lo trae in inganno. Nonostante ciò, però, la Consulta non si è spinta fino a pronunciare l’accoglimento della questione. Infatti, nonostante in questo caso il beneficio non sia giustificato, se la Corte introducesse una nuova ipotesi di
revoca oltre a quelle espressamente previste dal d.P.R. n. 115/2002, ciò postulerebbe una
pronuncia eccessivamente manipolativa ed implicherebbe una scelta
incompatibile con quella del legislatore di non operare distinzioni tra i soggetti del processo penale.