Con la recente ordinanza n. 11333 del 29.04.2024, la Corte di Cassazione è intervenuta nuovamente sullo spinoso argomento della distribuzione dell’orario di lavoro nei contratti di lavoro part-time.
La pronuncia in commento trae le mosse dalla richiesta di risarcimento avanzata da un lavoratore part-time (con orario part-time verticale) nei confronti del datore di lavoro per non essere stata indicata, all’interno del contratto di lavoro, la stabile collocazione della prestazione.
La domanda risarcitoria veniva accolta dalla Corte di Appello, riconoscendo alla ricorrente, a titolo risarcitorio, il 5% della retribuzione percepita.
La Corte di Cassazione, nel confermare la pronuncia di merito, ha esaminato nel dettaglio la normativa in tema di lavoro part-time e ha rilevato, innanzitutto, come non sia possibile derogare all’esigenza della puntuale indicazione dei turni nel contratto di lavoro, neppure mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite.
Difatti, secondo i Giudici di legittimità, un tale assunto sarebbe in contrasto con il duplice obiettivo perseguito dalla normativa dettata in tema di lavoro part-time, ossia (i) permettere al datore di lavoro di avvantaggiarsi di una prestazione di lavoro in forma ridotta e (ii) consentire al lavoratore di conoscere con certezza, fin dall'insorgere del rapporto di lavoro, l'entità della prestazione dovuta, anche allo scopo di organizzare l'orario residuo in altre eventuali occupazioni o impegni personali.
In tal modo, la Suprema Corte ha – sostanzialmente – svuotato di significato l’art. 5, comma 3 del d.lgs. 81/2015 (c.d. Jobs Act), nella parte in cui si prevede che “quando l’organizzazione del lavoro è articolata in turni, l’indicazione di cui al comma 2 può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite”.
L’unica eccezione in tal senso potrebbe essere rappresentata dall’inserimento, all’interno del contratto di lavoro part-time, di una c.d. “clausola flessibile”, ossia la previsione – operata nel contratto – del potere di variare la collocazione oraria della prestazione.
Sul punto, infatti, l’ordinanza in commento precisa che, con riguardo ai “turni assegnati ai lavoratori part-time, le indicazioni di legge e di contratto possono ritenersi rispettate solo quando - in mancanza di clausole flessibili elastiche - nel contratto di lavoro part time vengano indicati i turni in modo preciso e costante, in modo da rendere noto al lavoratore come verrà eseguita nel tempo la propria prestazione”, senza che sia possibile per il datore di lavoro di indicare i turni solo successivamente, in via periodica, al proprio dipendente part-time.
Nel caso in cui, quindi, nel contratto di lavoro part-time non fosse inserita la specifica indicazione dei turni di lavoro, alla stregua di quanto previsto dall’art. 10, comma 2 del d.lgs. 81/2015, spetterà al giudice determinare le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale, “tenendo conto delle responsabilità familiari del lavoratore interessato e della sua necessità di integrazione del reddito mediante lo svolgimento di altra attività lavorative, nonché delle esigenze del datore di lavoro”.
La pronuncia in commento trae le mosse dalla richiesta di risarcimento avanzata da un lavoratore part-time (con orario part-time verticale) nei confronti del datore di lavoro per non essere stata indicata, all’interno del contratto di lavoro, la stabile collocazione della prestazione.
La domanda risarcitoria veniva accolta dalla Corte di Appello, riconoscendo alla ricorrente, a titolo risarcitorio, il 5% della retribuzione percepita.
La Corte di Cassazione, nel confermare la pronuncia di merito, ha esaminato nel dettaglio la normativa in tema di lavoro part-time e ha rilevato, innanzitutto, come non sia possibile derogare all’esigenza della puntuale indicazione dei turni nel contratto di lavoro, neppure mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite.
Difatti, secondo i Giudici di legittimità, un tale assunto sarebbe in contrasto con il duplice obiettivo perseguito dalla normativa dettata in tema di lavoro part-time, ossia (i) permettere al datore di lavoro di avvantaggiarsi di una prestazione di lavoro in forma ridotta e (ii) consentire al lavoratore di conoscere con certezza, fin dall'insorgere del rapporto di lavoro, l'entità della prestazione dovuta, anche allo scopo di organizzare l'orario residuo in altre eventuali occupazioni o impegni personali.
In tal modo, la Suprema Corte ha – sostanzialmente – svuotato di significato l’art. 5, comma 3 del d.lgs. 81/2015 (c.d. Jobs Act), nella parte in cui si prevede che “quando l’organizzazione del lavoro è articolata in turni, l’indicazione di cui al comma 2 può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite”.
L’unica eccezione in tal senso potrebbe essere rappresentata dall’inserimento, all’interno del contratto di lavoro part-time, di una c.d. “clausola flessibile”, ossia la previsione – operata nel contratto – del potere di variare la collocazione oraria della prestazione.
Sul punto, infatti, l’ordinanza in commento precisa che, con riguardo ai “turni assegnati ai lavoratori part-time, le indicazioni di legge e di contratto possono ritenersi rispettate solo quando - in mancanza di clausole flessibili elastiche - nel contratto di lavoro part time vengano indicati i turni in modo preciso e costante, in modo da rendere noto al lavoratore come verrà eseguita nel tempo la propria prestazione”, senza che sia possibile per il datore di lavoro di indicare i turni solo successivamente, in via periodica, al proprio dipendente part-time.
Nel caso in cui, quindi, nel contratto di lavoro part-time non fosse inserita la specifica indicazione dei turni di lavoro, alla stregua di quanto previsto dall’art. 10, comma 2 del d.lgs. 81/2015, spetterà al giudice determinare le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale, “tenendo conto delle responsabilità familiari del lavoratore interessato e della sua necessità di integrazione del reddito mediante lo svolgimento di altra attività lavorative, nonché delle esigenze del datore di lavoro”.