La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 23391 del 12 maggio 2017, si è occupata proprio di un caso di questo tipo, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Firenze aveva confermato la sentenza di primo grado, con la quale un imputato era stato condannato per il reato di “violenza privata”, in quanto il medesimo aveva tolto, con violenza, dalla facciata dello stabile in cui abitava, la scala che era stata appoggiata per consentire ad un soggetto di salire sul tetto e ripulire un camino (su richiesta di una condomina dello stabile stesso).
Così facendo, l’imputato aveva impedito al soggetto in questione di scendere dal tetto, tanto che questi era rimasto sullo stesso per circa 40 minuti, fino all’arrivo della Polizia.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’imputato decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo l’imputato, in particolare, la condotta contestata non poteva essere considerata “violenza privata” ma, al più, “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” (art. 393 c.p.).
Precisava l’imputato, infatti, che il comportamento era stato posto in essere perché la vittima era salita sul tetto di uno stabile di sua proprietà, senza autorizzazione.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione all’imputato, rigettando il relativo ricorso.
Osservava la Cassazione, che il reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” si distingue da quello di “violenza privata” solo dal punto di vista delle intenzioni.
Nel primo reato, infatti, il soggetto agente deve agire al fine di esercitare un proprio diritto, pur non essendo necessario che il preteso diritto sussista realmente ed essendo sufficiente che il soggetto ritenga ragionevolmente che il medesimo esista.
Nel reato di violenza privata, invece, un soggetto si limita a far ricorso alla violenza per costringere qualcuno a fare o non pare qualcosa.
Nel caso di specie, tuttavia, l’imputato non aveva chiarito “quale fosse la relazione tra il diritto vantato dall’imputato e la condotta da questi tenuta”.
Osservava la Cassazione, infatti, che se l’imputato avesse agito al fine di esercitare il proprio diritto di proprietà, sarebbe stata comprensibile un’attività diretta ad impedire alla vittima di salire sul tetto, ma non un’attività volta ad impedirgli di scendervi, costringendolo, in tal modo, a rimanere in un posto in cui non aveva diritto di salire e di stare.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva correttamente escluso che la condotta posta in essere dall’imputato integrasse gli estremi del reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”, in quanto nessun diritto dell’imputato era stato posto in pericolo.
La vittima del reato, infatti, era “pacificamente” salita sul tetto, peraltro su richiesta di una condomina dello stabile, “in pieno giorno, per effettuare lavori di pulizia”, e non di certo per violare la proprietà altrui.
Ciò considerato, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato, confermando integralmente la sentenza di secondo grado e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.