Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Trento, in riforma della sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale della stessa città, aveva confermato la legittimità del licenziamento che era stato intimato a delle lavoratrici da un’Azienda pubblica di servizi alla persona, della quale erano dipendenti.
Nello specifico, le donne erano state licenziate in quanto le stesse avrebbero “timbrato in molteplici occasioni l'una per l'altra, il cartellino presenza, con modalità tali da fare risultare che esse erano in servizio in giorni di riposo”.
L’azienda, inoltre, aveva contestato alle lavoratrici in questione di non aver segnalato all’amministrazione “le anomalie di queste timbrature non corrispondenti al vero, nonostante la consegna mensile del cartellino orario al fine di operare il relativo controllo e consentire la segnalazione”.
Ritenendo la decisione ingiusta, le lavoratrici avevano deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo le lavoratrici, infatti, la Corte d’appello avrebbe fondato la propria decisione sulla base di “meri indizi, mai oggetto di prova”, traendone delle presunzioni, poste alla base della legittimità del licenziamento.
Precisavano le ricorrenti, in particolare, che lo strumento di registrazione delle presenze era collocato in “un locale ad accesso non controllato” e che esisteva “un software per poter rilevare anomalie nelle registrazioni”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione alle lavoratrici, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Evidenziava la Cassazione, in primo luogo, che il nostro ordinamento processuale “è ispirato ai principi del libero convincimento del giudice e di libertà delle prove”, con la conseguenza che “tutti i mezzi di prova hanno pari valore”.
Pertanto, secondo la Cassazione, il giudice può fondare la propria decisione sulla base delle “risultanze probatorie comunque acquisite agli atti, anche attraverso il ricorso al ragionamento presuntivo”.
Ebbene, secondo la Cassazione, nel caso di specie, la Corte d’appello aveva svolto un “articolato ragionamento logico presuntivo”, tenendo conto delle modalità e del numero delle registrazioni contestate, nonché modalità di accesso al locale al quale erano affissi i turni, escludendo “che le registrazioni contestate potessero essere effettuate da un esterno, da un addetto al centralino diverso dalle ricorrenti, da un altro lavoratore”.
Secondo la Cassazione, dunque, era applicabile al caso in esame l’art. 55 del d. lgs. n. 165 del 2001, il quale “stabilisce che si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento in caso di falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia”.
Secondo la Cassazione, inoltre, la Corte d’appello aveva giustamente ritenuto che la sanzione del licenziamento fosse proporzionata alla gravità della condotta (art. 1455 c.c.), sia in considerazione della reiterazione delle condotte contestate, sia “per la durata dell'inganno (18 mesi) che dimostrava una sostanziale indifferenza per gli interessi della datrice di lavoro e una volontà di prevaricarli nell'interesse individuale”.
Secondo la Cassazione, dunque, si trattava di “condotte dolose” che aveva irrimediabilmente leso il fondamentale rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalle lavoratrici, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando le ricorrenti anche al pagamento delle spese processuali.