Nel caso in esame, una società, che gestiva una residenza per anziani, agiva in giudizio sostenendo di aver letto sulla prima pagina del giornale locale un articolo in cui si dava atto dell’arresto del direttore della struttura, accusato di “avere commissionato una brutale aggressione in danno di due ex soci ,e ciò nell’ambito di una vicenda definita “oscura” dietro la quale, secondo l’articolista, si sarebbero celati interessi legati al controllo del lucroso business delle residenze sanitarie per anziani”.
La società aveva “immediatamente contestato al direttore responsabile della testata (…) l’erroneità ed il contenuto altamente diffamatorio dello scritto, tale da gettare ombre sulla residenza per anziani (…) da poco avviata, raffigurandola come al centro di una oscura vicenda dai risvolti penali”.
La società attrice evidenziava di non essere in alcun modo coinvolta nella vicenda descritta nell’articolo, che era stata “narrata in maniera distorta e volutamente capziosa dall’articolista”, dal momento che l’articolo faceva riferimento ad un soggetto, qualificato come “titolare” della residenza, il quale, in realtà, “non rivestiva nella struttura alcun ruolo direttivo o gestionale”.
A seguito della contestazione, sulla pagine web del giornale compariva un articolo di rettifica, in cui si precisava che il soggetto in questione non era titolare della residenza per anziani e che i soci della medesima erano altre persone.
Tuttavia, la società attrice rilevava che “nessuna rettifica era stata pubblicata sul giornale cartaceo, ed inoltre anche a distanza di giorni dall’avvenuta rettifica sul motore di ricerca Go. si rinveniva ancora l’articolo diffamatorio”.
Alla luce di tali circostanze, la società attrice sosteneva che “la diffusione della falsa notizia aveva provocato grave danno all’immagine, onore e reputazione” della struttura, in quanto aveva generato l’erroneo convincimento che la residenza per anziani “fosse direttamente coinvolta in una oscura vicenda dai risvolti penali”.
Secondo la società, dunque, doveva essere riconosciuto un danno non patrimoniale, derivato dalla pubblicazione dell’articolo, di cui avrebbero dovuto rispondere solidalmente il direttore della testata giornalistica e l’editrice, ai sensi dell’art. 2043 e 2059 codice civile.
Inoltre, la società precisava di aver diritto, altresì, alla “riparazione pecuniaria di cui all’art. 12 l. 47/1948, derivando il danno da fatto qualificabile come reato”.
In particolare, avrebbe dovuto essere accertata “la commissione del reato di diffamazione a mezzo stampa a mezzo della pubblicazione dell’errata notizia del 29/5/2012”.
Il direttore della testata giornalistica e l’editrice si costituivano in giudizio, contestando “l’esistenza della fattispecie di diffamazione a mezzo stampa e l’effettiva produzione dei danni allegati”.
I convenuti, infatti, rilevavano che la notizia dell’arresto dell’attore era stata appresa da un provvedimento del Tribunale, dal quale si poteva leggere che il soggetto indicato nell’articolo aveva “costituito una società intestata ai figli al nipote ed al cognato per gestire una struttura per anziani” e che il medesimo “si era presentato presso la sede del giornale (…) qualificandosi “titolare” della Is. S.r.l., e sottoscrivendo un contratto di pubblicizzazione della struttura”.
Pertanto, il giornale e il direttore si erano “convinti della veridicità e legittimità della notizia senza colpa o malafede”.
Il Tribunale non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla società attrice, ritenendo, invece, fondato quanto rilevato dai convenuti.
Secondo il Tribunale, infatti, non era nemmeno stato specificamente contestato il fatto che il soggetto individuato nell’articolo si era recato presso la sede del quotidiano, qualificandosi quale “titolare” della residenza per anziani e sottoscrivendo un contratto di pubblicizzazione della struttura stessa.
Sul punto, infatti, la società attrice si era “limitata ad affermare l’irrilevanza dell’episodio al fine di configurare l’esimente dell’errore scusabile nell’esercizio del diritto di cronaca, senza tuttavia negarne espressamente la storicità, e senza porre in dubbio che le inserzioni pubblicitarie fossero state in seguito effettuate”.
Osservava il Tribunale, inoltre, come, in base ai principi espressi dalla Corte di Cassazione, “vi è legittimo esercizio del diritto di cronaca (nella specie giudiziaria, visto che si dava notizia dell’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare e delle vicende ad essa sottese) da parte del giornalista, quando vengano rispettate le seguenti condizioni:
a) la verità (oggettiva o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) delle notizie riferite;
b) la continenza e cioè il rispetto dei requisiti minimi di forma che debbono caratterizzare la cronaca (e quindi tra l’altro l’assenza di termini esclusivamente insultanti), posto che lo scritto non deve mai eccedere lo scopo informativo da conseguire e deve essere improntato a serena obiettività, con esclusione di ogni preconcetto intento denigratorio;
c) la sussistenza di un interesse pubblico all’informazione” (in proposito, si vedano, tra le altre, le sentenze della Corte di Cassazione n. 1435/15, n. 18174/14, n. 25157/08 ecc).
Ebbene, nel caso di specie, secondo il Tribunale doveva escludersi “la valenza diffamatoria dell’articolo (…) e la stessa antigiuridicità della condotta, sussistendo la causa di giustificazione (…) del diritto di cronaca giudiziaria, e non essendo stati travalicati i limiti che condizionano la liceità della condotta per gli effetti dell’art. 2043 c. civ”.
Pertanto, non essendo configurabile un reato posto in essere dal giornalista, il Tribunale escludeva “anche la ricorrenza astratta del reato omissivo colposo di cui all’art. 57 codice penale (…), dal momento che tale fattispecie presuppone la commissione da parte del giornalista autore dell’articolo di un reato di diffamazione”.
Secondo il Tribunale, inoltre, la mancata commissione di un reato da parte dei convenuti escludeva “la debenza della chiesta riparazione pecuniaria ex art. 12 l. n. 47 del 1948”, la quale presuppone “la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del delitto doloso di diffamazione”.
Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale rigettava la domanda proposta dalla società, condannando la medesima al pagamento delle spese processuali.