Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Roma aveva assolto due imputati da tale delitto, del quale i medesimi erano stati accusati per aver offeso la reputazione di un soggetto, membro di un’associazione, mediante la pubblicazione di un articolo in cui venivano esposte le violenze subite da un altro soggetto presso l’associazione stessa.
Nello specifico, i due imputati erano, rispettivamente, l’autore dell’articolo e il direttore responsabile del giornale, che era stato accusato del reato per non aver effettuato i necessari controlli sul contenuto dell’articolo stesso.
Nell’ambito del procedimento, si era costituito parte civile un membro dell’associazione, il quale aveva chiesto il risarcimento dei danni subiti a causa della condotta diffamatoria dei due imputati, che l’avrebbe danneggiato, essendo egli stesso partecipante dell’associazione in questione.
Tale richiesta, tuttavia, era stata anch’essa rigettata, con la conseguenza che la parte civile aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione.
Secondo la parte civile ricorrente, infatti, il giudice aveva errato nel ritenere che solo poche persone potessero ricollegare la parte civile all’associazione in questione.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di dover dar ragione al ricorrente, rigettando il relativo ricorso.
Secondo la Cassazione, infatti, il giudice del precedente grado di giudizio aveva correttamente applicato il principio secondo cui, “essendo il reato di diffamazione costituito dall’offesa alla reputazione di una persona determinata, esso, pur astrattamente concepibile nei confronti di un numero ristretto di persone, non è configurabile quando siano pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di uno o più soggetti appartenenti ad una categoria, anche limitata, se le persone cui le frasi si riferiscono non sono chiaramente individuabili”.
Osservava la Cassazione, infatti, che “non solo una persona fisica ma anche una entità giuridica o di fatto, una fondazione, un’associazione – come nella fattispecie in esame – può rivestire la qualifica di persona offesa dal reato di diffamazione, essendo concettualmente concepibile un onore o un decoro collettivo, quale bene morale di tutti gli associati o suoi membri, considerati come unitaria entità capace di percepire l’offesa (…). Tuttavia, è incontroverso che la legittimazione competa anche ai singoli componenti, solo se le offese si riverberino direttamente su di essi, colpendo la loro personale dignità”.
In sostanza, dunque, i membri di un’associazione possono agire per il reato di diffamazione solo quando le offese siano chiaramente riferibili agli stessi e non, in generale, all’associazione.
Nel caso di specie, dunque, poiché nell’articolo incriminato non c’era alcun riferimento al nome del soggetto che si era costituito parte civile nel procedimento penale, il giudice aveva correttamente escluso il suo diritto al risarcimento del danno.
Il giudice del precedente grado di giudizio aveva, infatti, osservato che “solo una ristrettissima cerchia di parenti ed amici poteva essere nella condizione, per la conoscenza personale della parte civile, di ricollegarla alla predetta associazione, ma tale eventualità era irrilevante ai fini della decisione”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla parte civile, condannando la medesima al pagamento delle spese processuali.