Il caso concreto giunto all’attenzione della Suprema Corte, in particolare, traeva origine dalla domanda giudiziale proposta da una figlia nei confronti del suo padre naturale per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale ed esistenziale da deprivazione genitoriale. Il Tribunale aveva accolto parzialmente la domanda attorea e aveva condannato il padre al pagamento di oltre 40.000,00 euro.
Avverso tale provvedimento giurisdizionale avevano proposto appello sia la figlia, che si doleva del quantum debeatur, sia il padre, che lamentava il mancato rilievo della prescrizione del diritto azionato: l’attrice, infatti, aveva già venticinque anni ma tutte le sofferenze psicologiche dedotte derivanti dal rifiuto paterno erano riferite al periodo dell’adolescenza.
La Corte distrettuale, dunque, aveva accolto l’appello principale, aumentando il risarcimento a oltre 60.000,00 euro in considerazione del lungo lasso di tempo in cui il comportamento omissivo si era verificato (appunto durato per venticinque anni) e aveva rigettato l’appello incidentale, ritenendo che il diritto della figlia al risarcimento non fosse prescritto.
La sentenza d’appello era dunque stata impugnata dal padre, che censurava – per quanto qui di interesse – la violazione dell’art. 2947 c.c. per aver la sentenza di secondo grado omesso di dichiarare prescritto il diritto azionato.
Sulla questione della prescrizione del diritto al risarcimento del danno da deprivazione genitoriale, infatti, due sono astrattamente le vie percorribili:
- una prima opzione è quella di considerare l’illecito cessato nel momento del raggiungimento della maggiore età del figlio, momento che costituisce il dies a quo per la decorrenza del termine di cinque anni per avanzare la domanda risarcitoria;
- una seconda impostazione – seguita dalla Corte d’appello – è invece quella di considerare il rifiuto della genitorialità come illecito permanente, che si verifica momento per momento fino al raggiungimento non della maggiore età ma dell’indipendenza psicologica, che per convenzione viene fatta coincidere con il conseguimento dell’indipendenza economica.
Gli Ermellini, infatti, hanno richiamato alcuni propri precedenti in cui si evidenziava come l’illecito endofamiliare di protratto abbandono della prole produca un danno del tutto peculiare in quanto contemporaneamente
- patrimoniale, dato il mancato mantenimento economico;
- psicologico-esistenziale, data l’incidenza del rifiuto del genitore nella formazione della personalità del figlio, il quale peraltro istintivamente proverà il desiderio di avere un rapporto con il genitore.
Sulla scorta di tale motivazione, la Suprema Corte ha dunque ritenuto immune da vizi la sentenza impugnata e ha rigettato il ricorso.