Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d'appello di Catanzaro, a conferma della sentenza di primo grado, aveva condannato un imputato per tale reato, per essersi il medesimo impossessato del cellulare della fidanzata.
Ritenendo la sentenza ingiusta, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando come mancasse l’elemento soggettivo della rapina.
Evidenziava il ricorrente, infatti, come tra lui e la persona offesa vi fosse un rapporto sentimentale e come fosse stata una “giusta gelosia” a portare al procedimento penale in questione.
Nello specifico, infatti, il ricorrente riferiva di essere impossessato del cellulare della fidanzata allo scopo di impedire alla stessa di “ricevere telefonate dai clienti corteggiatori e dunque di impedire che la stessa si prostituisse”.
Secondo il ricorrente, inoltre, “le minime lesioni prodotte” per impossessarsi con forza del cellulare non avevano determinato alcuna “alterazione del viso né tanto meno alcuna sfigurazione estetica considerato che l'aspetto in zona nasale un po' schiacciato era già sussistente” e che non poteva essere considerata “arma un mestolo da cucina”.
La Corte di Cassazione tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, evidenziando come, nel caso concreto, la Corte d’appello avesse adeguatamente motivato la propria decisione di confermare la sentenza di primo grado.
Secondo la Cassazione, dunque, la sentenza impugnata appariva “formalmente e sostanzialmente legittima” e la motivazione in essa contenuta forniva “esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti la sussistenza del reato di rapina il cui profitto può concretarsi in ogni utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene”.
In tal senso si era pronunciata, infatti, la medesima Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11467 del 2015.
Secondo la Cassazione, inoltre, la Corte d’appello aveva correttamente escluso la concedibilità dell’attenuante di “avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale, per la cui sussistenza non è sufficiente la convinzione dell'agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, ma è necessaria l'obiettiva rispondenza del motivo a valori effettivamente apprezzabili dal punto di vista etico, che siano riconosciuti come preminenti dalla coscienza della collettività e che nulla abbiano in comune, con il movente egoistico dell'autore del reato”.
Allo stesso modo, secondo la Corte, il giudice di secondo grado aveva correttamente escluso l’attenuante della provocazione, “che richiede lo ‘stato d'ira’, il ‘fatto ingiusto altrui’, che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell'ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell'imputato e alla sua sensibilità personale e un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra l'offesa e la reazione, situazione che non si è verificata nel caso in esame”.