Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Torino aveva confermato la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Verbania, che aveva ritenuto un’imputata colpevole del delitto di diffamazione, per aver offeso la reputazione dell’ex coniuge, pubblicando su un blog “un messaggio in cui descriveva le proprie vicissitudini matrimoniali”, affermando che l’ex marito “nonostante la perizia psichiatrica allarmante, insegna a dei bambini”.
La Corte d’appello evidenziava che nel messaggio in questione l’ex marito era stato descritto come “un musicista, docente di scuola media e maestro”, con la conseguenza che lo stesso era stato reso ben riconoscibile, essendo, peraltro, l’unico ex marito dell’imputata.
Il sito, inoltre, “era accessibile da chiunque, tanto che ne aveva avuto diretta conoscenza anche la nuova moglie del querelante”.
Di conseguenza, la Corte d’appello giungeva alla conclusione di ritenere il contenuto della comunicazione “lesivo della reputazione della persona offesa perché ipotizzava patologie psicologiche in un soggetto che ricopriva funzioni educative”, tanto più che era emerso come la persona offesa non fosse mai stato sottoposto, nel corso del procedimento di divorzio, “a perizie o valutazioni psichiatriche”.
Ritenendo la sentenza ingiusta, la condannata (la ex moglie) proponeva ricorso per Cassazione, il quale, tuttavia, veniva rigettato, in quanto infondato.
Secondo la Cassazione, in particolare, dagli elementi raccolti in corso di causa era emerso che “il brano pubblicato sul blog era a firma della convenuta e conteneva notizie certamente riconducibili al rapporto matrimoniale fra la stessa e la persona offesa. Ed il brano incriminato era in perfetta continuità logica con le altre argomentazioni sviluppate”.
Di conseguenza, secondo la Corte, non potevano considerarsi attendibili le argomentazioni svolte dall’imputata, che aveva dedotto “il possibile mutamento del contenuto dello scritto e la non riconducibilità dello stesso alla ricorrente”.
Evidenziava la Corte, infatti, che le affermazioni della ricorrente “finivano per essere delle mere congetture, non riuscendo la stessa difesa neppure ad ipotizzare chi e perché avrebbe dovuto usare simili espressioni” nei confronti dell’ex marito, cercando, altresì, di attribuire la paternità del messaggio all’imputata.
La Corte di Cassazione evidenziava, dunque, come la disposta pena detentiva non apparisse eccessiva, considerato il “lungo lasso di tempo in cui il brano diffamatorio è rimasto sul blog, consentendone a tutti gli utenti l’accesso e la lettura”.
Alla luce di tali considerazioni, la Cassazione rigettava il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali.