Nel caso esaminato degli Ermellini, il Tribunale di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, aveva assolto la dirigente di un Ufficio pubblico dal delitto di “diffamazione”, del quale era stata accusata per aver “offeso la reputazione” di un proprio dipendente, scrivendo, in una lettera inviata al Ministero per i Beni Culturali e alla Biblioteca Nazionale di Bari, che il lavoratore aveva “ritardato, eluso, omesso e ostacolato ogni sua direttiva intesa al rilancio dell’Istituto affidatole ed al benessere organizzativo dei lavoratori che vi prestano servizio”.
La datrice di lavoro aveva, inoltre, scritto che il dipendente “aveva arrecato grave nocumento alla sua dignità personale e professionale, all’immagine dell’Istituto e agli interessi dei lavoratori” e che era stato lento e gravemente negligente “nell’adempiere ai doveri inerenti agli Uffici Tutela, Restauro e Catalogazione”.
Ritenendo la decisione ingiusta, il dipendente aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole, in quanto il Tribunale non avrebbe dovuto riconoscere all’imputata la scriminante del diritto di critica, data la specificità del rapporto di lavoro di Pubblico Impiego regolato da una legge dello Stato.
Evidenziava il ricorrente, in proposito, che la “conflittualità tra la Dirigente di un ufficio e i dipendenti è regolata e contenuta nei limiti consentiti dal dlgs n. 150/2009”, mentre la lettera oggetto di contestazione non era prevista da tale normativa, in quanto il dirigente “può inviare lette di encomio o avviare un procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente, dando modo a costui di potersi difendere nei modi e nei termini previsti dalla legge”.
Nel caso di specie, invece, per il dipendente, la lettera scritta dalla dirigente “era fine a sè stessa, non essendo tesa a promuovere un’azione disciplinare ma solo a lasciare una macchia nel curriculum personale della persona offesa, oltre ad essere stata scritta solo per spirito di vendetta”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter accogliere il ricorso del dipentente in quanto infondato, sottolinenando che: “il potere gerarchico o, comunque, di sovraordinazione, non consente di esorbitare dai limiti della correttezza e del rispetto della dignità”, con la conseguenza che si rendeva necessario accertare se l’espressione pronunciata dalla dirigente si fosse limitata “alla censura di una determinata condotta lavorativa o professionale del sottoposto, ovvero, pur prendendo spunto da essa, sia trasmodata in un attacco personale all’individuo”.
Ebbene, nel caso di specie, la Cassazione evidenziava che il Tribunale aveva, del tutto coerentemente, rilevato che la lettera incriminata non conteneva “valutazioni gratuite sulla persona o sulla condotta in generale” del dipendente pubblico.
La lettera in questione, infatti, si limitava a valutare “in maniera pesantemente negativa, con toni aspri”, solo la condotta lavorativa del dipendente stesso, cui era stato rimproverato, “oltre che uno scarso rendimento in uno specifico settore lavorativo, un atteggiamento improntato a marcata ostilità nei confronti della stessa dirigente”.
Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte rigettava il ricorso proposto dal dipendente pubblico, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.