Il caso sottoposto all’esame della Cassazione ha coinvolto un soggetto, che era stato condannato, sia in primo che in secondo grado, per il reato di “diffamazione” (art. 595 c.p.), commesso in danno di un assessore regionale, tramite la pubblicazione di un articolo pubblicato su un giornale.
Nello specifico, nell’articolo in questione l’imputato aveva evidenziato “il deprecabile intreccio di politica e affari e denaro pubblico che opprimeva la Regione”, messo in luce da un’inchiesta giudiziaria.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolare, la Corte d’appello, nel confermare la sentenza di condanna di primo grado, non avrebbe tenuto conto del fatto che l’articolo era stata “redatto e presentato chiaramente come una ‘opinione’”, espressa dall’imputato, nella sua qualità di membro di un’associazione politica.
A detta del ricorrente, dunque, la Corte d’appello avrebbe dovuto ritenere applicabile, al caso di specie, la causa di esclusione della punibilità del “diritto di critica”, di cui all’art. 51 c.p.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle considerazioni svolte dall’imputato, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Secondo la Cassazione, infatti, la causa di esclusione della punibilità del “diritto di critica” poteva valere solo per le parti dell’articolo “che costituivano espressione di commenti e valutazioni politico sociali”.
Evidenziava la Cassazione, inoltre, che l’imputato, nell’articolo, aveva anche riferito una notizia non vera riguardante il diffamato, affermando che lo stesso sarebbe stato rinviato a giudizio, quando, invece, nei suoi confronti erano solamente state svolte delle indagini.
Precisava la Cassazione, in proposito, che “in tema di diffamazione a mezzo stampa, presupposto imprescindibile per l’applicazione dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica è la verità del fatto storico posto a fondamento della elaborazione critica”.
La critica, dunque, secondo la Cassazione, “deve pur sempre fondarsi sull’attribuzione di fatti veri, posto che nessuna interpretazione soggettiva, fonte di discredito per la persona che ne sia investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio di tale diritto, quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti opposta alla verità”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato, confermando integralmente la sentenza impugnata.