La vicenda aveva ad oggetto la quantificazione dell’
assegno di mantenimento dovuto da un marito nei confronti della moglie separata e dei tre
figli della coppia. In
primo grado, il
giudice aveva determinato l’ammontare di tale assegno mensile a 300
euro per ciascuno dei figli e 200 euro per la moglie. La decisione, tuttavia, veniva riformata dalla Corte d’appello, che, avendo valorizzato determinati elementi dai quali emergeva che il marito percepisse un
reddito maggiore rispetto a quanto dichiarato, aveva riquantificato le somme a 600 euro mensili per ciascuno dei figli e 800 euro per la moglie.
Il marito aveva perciò proposto
ricorso in Cassazione, denunciando la nullità della
sentenza sulla base di due motivi: per violazione dell’art.
2729 c.c., essendo la sentenza basata su
presunzioni semplici in assenza di indizi gravi, precisi e concordanti; per
contraddittorietà della motivazione, essendo emersi anche elementi di segno contrario in merito alla capacità reddituale del
ricorrente.
Nello specifico, veniva contestato il fatto che la Corte d’appello avesse determinato il reddito del marito in misura maggiore rispetto a quanto dichiarato da una
delibera della s.r.l. di cui egli era amministratore, la quale prevedeva che gli emolumenti riconosciuti agli amministratori fossero ridotti. Così facendo, a detta del ricorrente, il giudici di secondo grado avevano del tutto
disatteso le prove documentali fornite dalla
società, facendo invece prevalere una mera
presunzione semplice non supportata da indizi gravi, precisi e concordanti, ed essendosi quindi basati su un convincimento personale completamente discordante con i documenti raccolti.
La Corte di Cassazione si è espressa con l’
ordinanza n. 5279/2020, dichiarando il ricorso
inammissibile. Secondo la Suprema Corte, infatti, i giudici d’appello avevano correttamente valutato le prove sottoposte alla loro attenzione, essendo giunti alla loro conclusione non in ragione di un proprio personale convincimento, ma per aver valorizzato una serie di ulteriori elementi di fatto
gravi, precisi e concordanti. Questi elementi, secondo la Cassazione, erano idonei a concludere che i documenti forniti dalla s.r.l. non rappresentassero fedelmente la reale
capacità contributiva del marito, ma che invece quest’ultimo percepisse un reddito maggiore di quanto desumibile dalla delibera societaria. Oltretutto, la scelta di ridurre il compenso degli amministratori era riconducibile allo stesso ricorrente, essendo egli
socio al 50% insieme alla sorella, e non emergeva dal
bilancio di esercizio alcun problema economico della
società.
Secondo la Suprema Corte, il ragionamento presuntivo implica che il giudice compia due operazioni distinte: innanzitutto, egli dovrà operare una ricognizione di tutti gli indizi emersi e valutarli analiticamente ad uno ad uno, escludendo quelli privi di rilevanza e mantenendo invece quelli gravi e precisi; successivamente, dovrà valutare nel complesso tali elementi e controllare se sono concordanti tra loro e quindi idonei a fondare una valida prova presuntiva. Questo ragionamento è stato correttamente operato dai giudici di merito nel caso in esame.
Una volta che il
giudice ha condotto un ragionamento di questo tipo, l’unico modo per farne accertare un vizio è quello di far emergere la
contraddittorietà e l’
assoluta illogicità dell’iter argomentativo seguito; non basterà, quindi, per il ricorrente, limitarsi a proporre una valutazione alternativa degli elementi già esaminati dal giudice, cosa che invece era avvenuta nel caso concreto.