Disposizione contenuta nel primo comma dell'art. 578 del vecchio codice
Tra le servitù prediali stabilite dalla legge il vecchio codice annoverava, all'art. 578 comma 1, un obbligo corrispondente a quello stabilito dall'articolo in esame. Circa l'interpretazione da dare all'art. 578 si discuteva se esso contemplasse tanto gli emungimenti quanto le recisioni di vene.
Si hanno
emungimenti quando si eseguono nel proprio fondo scavi ad una distanza non sufficiente ad impedire l'impoverimento o l'essiccamento delle acque del vicino, a causa della pressione filtrante delle medesime. Si hanno
recisioni invece quando il proprietario del fondo, nel cui sottosuolo passa la vena d'acqua che poi sgorga in un fondo inferiore, interseca il corso sotterraneo e provoca così il disseccamento della sorgente a valle.
Nel diritto romano su tale tema si trovano poche norme, le quali più che altro ammettono e riconoscono la più ampia libertà del singolo. La recisione delle vene viene dichiarata azione più che lecita infatti da una serie di bassi del Digesto. Anche gli emungimenti erano per il giurista romano più che leciti e ciò sembra confermato anche dalla legge 26, § 12, lib. 39, tit. 2 del Digesto, in cui Trebazio afferma che non spetta l'azione della
stipulatio danini infecti « si in tuo agro cuniculo vel fossa aquam meam avoces ».
In verità se le sorgenti, in diritto romano, appartengono indiscutibilmente al proprietario del fondo in cui esse nascono, al di fuori di questa sfera non sussiste nessun diritto, e la proprietà di esse non è affatto tutelata contro gli atti del vicino. Questa mancanza di ogni disciplina giuridica delle
acque sotterranee si può spiegare se si tiene conto che la proprietà fondiaria romana presenta caratteri speciali, i quali, come ritiene autorevole dottrina, ne fanno un chiaro parallelo della sovranità territoriale.
Probabilmente l'assenza di un buon regime giuridico delle acque sotterranee in diritto romano deriva anche dalla minore importanza che esse dovevano avere nell' economia agraria di quei tempi. Infatti allora gran parte dell'Italia, più che di scarsezza d'acqua, soffriva per le piene e alluvioni che il regime torrentizio, caratteristico di molti nostri corsi d'acqua, cagionava. Pertanto si aveva più bisogno di norme che, come l'
actio aquae pluviae arcendae, impedissero di riversare nei fondi vicini l' eccesso di acqua che di leggi le quali stabilissero una razionale ripartizione della medesima.
Ma se durante la dominazione romana l'utilizzazione dell'acqua in genere non venne considerata in tutto il suo valore, non fu così nel periodo successivo, a cominciare dal
Medio Evo, in cui, come è noto, molte lotte fra Comuni, specialmente nell' Alta Italia, ebbero origine da contese circa la proprietà dell'acqua. Ciò spiega come nella costituzione di Milano, promulgata nel 14.4.6 sotto il titolo
De aquis et fluminibus, fosse vietato scavare nuovi fontanili a una distanza minore di 300 braccia, e nel proclama del Mantovano del 21 agosto 1602 si facesse espresso divieto di recidere le vene di acqua sul proprio fondo qualora le acque fossero già utilizzate da fondi inferiori.
L'
art. 578 del vecchio codice civile riguardava anch'esso le recisioni di vene? L'interpretazione di questo articolo costituisce una delle questioni più antiche e controverse del nostro diritto civile: di fronte a coloro che ritenevano che l'art. 578 contemplasse i soli emungimenti vi era tuttavia chi affermava che nel suo disposto rientrassero anche le recisioni, mentre altri ancora sostenevano che contemplasse solo queste ultime. Uno dei sostenitori della prima interpretazione è
Giovannetti, il quale afferma che la recisione di vene costituisce l'esercizio legittimo di un diritto perché l' intercidere la vena che va nel fondo altrui con lo scavare nel proprio fondo è un atto lecito rientrante nell' ambito della proprietà, mentre l' emungimento è invece un atto illecito e abusivo che si risolve nel rendere mio ciò che è del vicino. Quindi la legge non può riferirsi al primo atto che è un diritto, ma al secondo che e un illecito.
Identico è il ragionamento del
Gianzana, il quale aggiunge: a)
che nel caso dell'art. 578 si trattava di servitù e la servitù è un peso imposto su di un fondo a vantaggio di un altro, mentre invece impedire che si scavi al fine di non reciderne le vene rappresenta una vera e propria espropriazione; b) che la legge parlava di maggiori distanze e maggiori opere da eseguirsi per non nuocere ad altri, e queste possono servire non contro la recisione ma contro l' emungimento, poiché la prima non può essere impedita da tali misure. Del parere che l'art. 578 riguardasse solo gli emungimenti erano anche il Gabba, il Chironi e il Traina, nonché diverse sentenze della Cassazione e delle Corti d'appello.
Favorevole a un'interpretazione che comprendesse nell'art. 578 anche le recisioni era invece
Scaduto, il quale, pur partendo anche lui dal principio secondo cui esse sono atti leciti, ritenne che fossero vietate dal detto articolo alle seguenti condizioni: 1) che la sorgente preesistente, alla quale si vuole attribuire questo diritto di servitù attiva, avesse già ricevuto un' utile destinazione a beneficio dell'agricoltura e dell'industria; 2) che l'antica sorgente avesse una più utile e più importante destinazione in rapporto alla nuova, e che tale destinazione l'avesse ricevuta nel fondo stesso dominante, e non mai in altri fondi appartenenti ad altri proprietari; 3) che i due fondi fossero in una tale posizione topografica da far sì che fosse impossibile che le acque della nuova sorgente del fondo vicino supplissero ai servizi ed ai bisogni cui soddisfavano quelli della prima sorgente nel fondo dominante; 4) che in ogni caso il diritto alla tutela della prima sorgente non si estendesse al di là di quel volume d'acqua già utilizzato per l'agricoltura e l'industria, sino al tempo dell'apertura della seconda sorgente.
Il
Mazza riteneva invece che le recisioni fossero atti illeciti e che pertanto l'art. 578 le vietasse in tutti i casi.
Un'interpretazione che si discosta dalla precedente è quella sostenuta dall'
Astorri, secondo cui l'art. 578 non contemplava né il divieto del taglio delle vene nè quello degli emungimenti, i quali non sarebbero ammissibili di per sè in quanto atti illeciti costituenti furto. Egli quindi sosteneva che l'articolo si riferisce ad un'ipotesi speciale, riguardante l'abbassamento di livello di un grande
aves o bacino sotterraneo, cagionato da nuove uscite provenienti da scavi di livello inferiore alle sorgenti, fontanili, ecc., prima esistenti. Questa opinione si fonda sopra un criterio molto ristretto dell'emungimento. In complesso si può dire che l'
opinione dominante, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, era quella che ammetteva l'
illiceità del taglio delle vene idriche.
Tra le poche
decisioni contrarie dell'autorità giudiziaria è da porre in rilievo la sentenza 10 marzo - 13 aprile 1931, n. 1329, della Cassazione (2a sezione civile) con cui fu affermato che il proprietario del suolo ha il pieno diritto di intercettare le acque scorrenti nel sottosuolo e di raccoglierle ed utilizzarle a suo piacimento, anche se con ciò venisse a menomare o far cessare il godimento di altri utenti più in basso delle acque medesime. Nel riportare e commentare tale sentenza la dottrina (
Pulvirenti) ha messo in luce tutti i precedenti, dal diritto romano al diritto comune ai lavori preparatori del codice civile, che suffragano la tesi sostenuta nella sentenza stessa. A chi obiettava che, limitando il divieto agli emungimenti, il provvedimento legislativo sarebbe stato incompleto, poiché nell' interesse dell' agricoltura e dell'industria era maggiormente necessario proteggere i fondi dalla recisione delle vene che dagli emungimenti, egli rispondeva che, se ciò poteva essere una forte ragione affinché
de lege ferenda si ponesse questa gravissima limitazione alla proprietà delle acque - che, secondo lui, costituiva addirittura un'espropriazione a vantaggio di chi aveva goduto con priorità delle acque passanti nel sottosuolo dei fondi superiori e a carico dei medesimi - ciò non legittimava
de lege lata un'interpretazione che comprendesse nel divieto anche il taglio delle vene.
Ciò premesso, l'art. 578 doveva essere interpretato, per tale autore, nel modo seguente: si deve riconoscere anzitutto, come principio generale, il diritto del proprietario ad utilizzare le acque che scorrono nel sottosuolo del suo fondo. Trattandosi di vene d'acqua questo diritto è illimitato. Se invece manca una vera e propria vena, ma l'acqua è il risultato di un emungimento (inteso nel significato più generale) a danno di acque da altri prima utilizzate, allora bisogna distinguere. Di regola, anche in questo caso, saranno lecite le opere dirette a usufruire di quelle acque che, date le condizioni geologiche del suolo, è possibile ottenere: i vicini non hanno motivo di lamentarsene, tanto più che essi possono impedire, in certi casi, l'infiltrazione mediante opportune opere nei rispettivi fondi. A queste regole si deve fare eccezione nel caso in cui l'emungimento si produca a danno di acque già destinate all'irrigazione dei Beni o impiegate nell'industria con forza motrice. In questo caso non basta serbare nelle escavazioni la cosi detta «
distanza solonica » od «
attica », ma occorre osservare le maggiori distanze ed eseguire quelle opere che siano necessarie per non nuocere all'acqua che si trova già ad essere utilizzata agli scopi suddetti.
Con successiva sentenza 4 luglio 1933, n. 2511, la
Cassazione (II sezione) è tornata a
sostenere la tesi dominante, affermando, con molta chiarezza, che: a) tanto l'emungimento quanto la recisione delle vene possono far sorgere una responsabilità a termini dell'art. 1151 codice civile, quando siano compiuti con l'intenzione di nuocere al vicino o quando, sebbene effettuati in considerazione di assicurarsi il beneficio dell'acqua, non vengono osservate le misure precauzionali stabilite nella prima parte dell'art. 578 codice civile per prevenire e impedire la menomazione dei diritti del vicino; b) quando invece l'emungimento o la recisione costituisce esplicazione pienamente legittima del diritto dominicale, senza concorso di dolo o colpa, si applica non l'art. 1151, ma il capoverso dell'art. 578, il quale demanda al giudice di decidere, in via equitativa e con potere discrezionale, come debbano essere conciliati i diritti delle parti, e ciò quale valutazione di fatto che non può dar luogo al ricorso per Cassazione.
Secondo l'opinione prevalente comprendeva entrambi i divieti
Di fronte a una cosi notevole differenza di opinioni, la più attendibile sembra quella che riteneva
vietati dall'art. 578
tanto gli emungimenti quanto le recisioni. Basti, tra l'altro, considerare che se per il vecchio art. 449 (oggi
937 c.c.) è vietato al proprietario di materiali incorporati nell'opera o nel suolo altrui di toglierli se con ciò può gravemente danneggiare le opere o il fondo, perchè non dovrebbe ugualmente essere vietato di togliere l'acqua incorporata in un fondo e con la quale i1 proprietario di questo, credendola sua in assoluta buona fede, ha attivato sorgenti, pozzi e fontanili? Tanto più che, mentre nel caso dei citati articoli è incontestabile che i materiali incorporati appartengono a colui che li reclama, altrettanto non può dirsi nel caso dell'acqua sotterranea. Nessun diritto, infatti, può vantare su di essa il proprietario, essendo uscita naturalmente dalla cerchia della sua proprietà, poichè, come dice il Ricci, l'acqua è un elemento che sfugge: essa ci appartiene in quanto possiamo dominarla, rimanendone in possesso, ma se il possesso viene meno, viene meno altresì il diritto di proprietà sulla medesima. Finchè l'acqua della sorgente rimane nel mio fondo io ne sono il vero proprietario assoluto e ne dispongo perciò come mi aggrada, ma quando l'acqua varca i confini del mio fondo essa non mi appartiene più e cessa il mio potere di disporne. Nei riguardi dell'acqua, elemento di interesse sociale, non possono applicarsi strettamente i criteri di proprietà che vigono per gli altri beni: ciò del resto sarebbe contrario agli stessi principi che animano le disposizioni del codice in questa materia.
Se si dovesse ammettere che le acque appartengono al proprietario del fondo solo quando le vene che le alimentano siano anch'esse di sua proprietà, nessuno potrebbe dirsene proprietario, poiché nessuno può andare nel sottosuolo a vedere se le acque che egli ha captato abbiano origine nel suo fondo o altrove. Né basta che, scavando nel mio fondo, cessi il getto che alimentava la sorgente del vicino per dimostrare che le vene alimentatrici si trovano nella mia proprietà, perchè può benissimo darsi che ciò dipenda dal fatto che tutti e due gli scavi praticati nel terreno immettano in un
aves sotterraneo, cioè in una specie di serbatoio naturale di acque, il livello del quale di abbassi a causa delle nuove uscite formale dall'acqua in luoghi più bassi delle antiche sorgenti. Ora, se non può ritenersi che il vecchio articolo 578 si dovesse applicare solo in questo caso, si deve riconoscere che la sola possibilità del suo verificarsi renda palese l'ingiustizia di accettare il principio che sia proprietario dell'acqua solo colui che ha la possibilità di toglierla ad altri, scavando nel suo.
Pertanto l'articolo 578 dell'abrogato codice doveva interpretarsi come
vietante tanto gli emungimenti quanto le recisioni. E, per quanto riguarda queste ultime, il criterio seguito dal codice era quello per cui entrambi i proprietari (cioè tanto colui che per primo aveva attivato la sorgente quanto quello che aveva nel suo le vene alimentatrici della stessa) avevano diritto all'acqua che si trovava nel loro fondo, per il fatto stesso che vi si trovava. Ma, essendo l'un diritto incompatibile con l'altro, doveva sacrificarsi quello dei due che presentasse minori vantaggi per l'agricoltura o l'industria, assegnandosi al titolare del diritto sacrificato l'indennità che gli competeva.
Rimarrebbe solo l'
obiezione di parte della dottrina secondo cui, potendo il giudice lasciare libero l'esercizio di entrambi i diritti collidenti, oppure sacrificare l'uno o altro di essi, non si comprende come tale alternativa possa riferirsi al caso di recisione, in cui non vi è altra possibilità che sacrificare uno dei due diritti. L'obiezione è forte, tanto più per chi sostiene che il secondo comma del vecchio art. 578 riguardasse solo le recisioni. Però anche il primo comma poteva applicarsi a queste ultime, e quindi a tale obiezione si può ribattere che era possibile far sussistere i due diritti collidenti quando, ad ovviare alle recisioni, bastassero quelle maggiori distanze e quelle opere che nel primo comma il codice imponeva di osservare.
È vero che parte della dottrina (Gabba e Gianzana in particolare) affermava che con tali opere non si potesse
ovviare alle recisioni: anzi un autore (
Gianzana), per il solo fatto che l'art. 578 le prescriveva, voleva trarre la prova che tale norma non contemplasse le recisioni. Ma ciò non si basava su risultati tecnici, i quali facessero ritenere assurdo che, ad evitare le recisioni di vene, bastasse semplicemente spostare lo scavo. Non poteva ammettersi infatti che le vene di acqua occupassero sempre tutto il sottosuolo del fondo o che questo non fosse dotato di altre vene idriche all'infuori di quella che alimentava il fondo sottostante: infatti in molti casi si poteva trovare pure un posto, in cui scavando, non si venisse a danneggiare il vicino. Ed ecco che allora si rientrerebbe nel caso delle maggiori distanze o delle opere contemplate dal codice.
In verità non pare che dove il vecchio codice non distinguesse ci fosse ragione di distinguere. La norma del codice abrogato mostrava, nella sua dizione testuale, la consapevolezza del legislatore di apportare una
limitazione al diritto di proprietà per la tutela di quel patrimonio idraulico sotterraneo che non può essere abbandonato all'assoluto arbitrio dei singoli.
Anche l'articolo in esame va interpretato in tal senso. Usi a cui devono essere destinate le acque la cui utilizzazione non può essere pregiudicata con l'apertura di nuove sorgenti e opere simili
L'art. 911 del nuovo codice, oltre ad aver trasferito all'art.
912 la disposizione contenuta nel secondo comma del commentato art. 578, ha aggiunto alle opere di cui si tratta (apertura di sorgenti, stabilimenti di capi o aste di fronte, ecc.) l'
esecuzione in genere di opere per estrarre acqua dal sottosuolo, e inoltre ha aggiunto gli
usi domestici alle altre due utilizzazioni (quella irrigua e quella industriale) già indicate nell'art. 578 e a cui devono essere destinate le acque il cui uso non può essere pregiudicato con le suddette opere.
L'art. 93 della legge sulle acque (T. U. 11 dicembre 1933, n. 1775) comprende negli usi domestici l'innaffiamento di giardini ed orti inservienti direttamente al proprietario ed alla sua famiglia e l'abbeveraggio del bestiame, perciò deve ritenersi che tali usi si aggiungano all'uso potabile e all'uso di acqua per lavatoi, in quanto l'uno e l'altro uso servono esclusivamente ai bisogni domestici.
Pur tenendo conto di tutti questi usi domestici e di quelli per irrigazione e per fini industriali non si esaurisce la serie degli scopi a cui può essere destinata l'acqua ricavabile da sorgenti, capi, aste di fonte, pozzi e simili, restandone esclusi se non altro gli usi voluttuari, quali ad es. quelli per opere di abbellimento di parchi e giardini con fontane, vasche, laghetti.
Chiarito ciò per quel che riguarda la seconda aggiunta fatta con l'articolo in esame a quanto disponeva l'art. 578 del vecchio codice, resta da chiarire la prima aggiunta, dovendosi domandare se con essa si è voluta risolvere la dibattuta questione su cui ci si è intrattenuti, e cioè se si è voluto estendere gli obblighi imposti dall'art. 911 c.c. tanto a chi costruisce opere che possano emungere le acque dei fondi altrui quanto a chi costruisce opere che possono recidere le vene idriche scorrenti nei fondi stessi.
La risposta è affermativa, poiché l'espressione «
ed in genere eseguire opere per estrarre acque dal sottosuolo », per quanto non del tutto felice, contrasta l'interpretazione restrittiva che si poteva dare alla vecchia formulazione. Questa, comprendendo fra le opere di presa solo le sorgenti, i capi e le aste di fonte, pareva fare riferimento alle acque naturalmente affioranti, come sono quelle dei fontanili (che non hanno bisogno per venire alla luce che di un taglio, diciamo così, cesareo), escludendo quindi le acque che devono essere estratte con mezzi meccanici dal profondo del terreno. Cosi interpretata, la vecchia norma si prestava in qualche modo a confermare la tesi che non faceva ricadere la recisione delle vene sotto il divieto di cui all'art. 578 del vecchio codice, considerato che la recisione viene prodotta di regola da uno scavo eseguito per captare ed estrarre meccanicamente acque sotterranee.
In conclusione risalta ora meglio di prima il concetto secondo cui
la disposizione in esame non si preoccupa di impedire atti illeciti e nemmeno atti emulativi, poiché chi scava nel proprio fondo per trovarvi l'acqua di cui abbisogna non lo fa con lo scopo di nuocere o recare molestia ad altri. Se si trattasse di atti illeciti o emulativi non ci sarebbe stata ragione di limitare la tutela alle opere destinate a determinati usi (agricoli, domestici, industriali): la verità è che il codice, per questi usi, ha considerato legittimi tanto gli interessi del proprietario a valle quanto quelli del proprietario a monte, e ha cercato di conciliarli sia con le prescrizioni contenute nell'articolo in esame sia con quelle contemplate dall'articolo successivo, consentendo di evitare che venga distrutta la ricchezza creata dal proprietario a valle con l'uso dell'acqua defluente dal fondo superiore e ammettendo in pari tempo che possa essere obbligato il proprietario del fondo inferiore ad indennizzare il proprietario a monte.