Contrariamente ad altre diverse tendenze manifestatesi, si è disposto che la sentenza disponente la revoca dell'interdizione o dell'inabilitazione produce i suoi effetti soltanto dal passaggio in cosa giudicata.
Non è sembrato, infatti, che ricorressero qui ragioni per discostarsi dalla tendenza generalmente qui seguita e diretta ad evitare, nel limite del possibile, che nelle more del giudizio, a causa della contraddittorietà delle sentenze via via emanate, si faccia luogo a ripetuti mutamenti nella capacità dell' interdetto, quali appunto si potrebbero verificare nel caso di accoglimento del principio della operatività immediata delle sentenze di revoca anche non definitive. Il rigore di una simile norma è stato tuttavia sensibilmente attenuato, essendosi al tempo stesso stabilito che, quali che possano essere state le vicende processuali della domanda di revoca, una volta questa accolta con provvedimento passato in cosa giudicata, si debbano aver per validi gli atti compiuti dopo di essa dall'interdetto o dal suo tutore o dall'inabilitato, senza l'osservanza delle prescritte formalità.
"Nella specie", chiarisce il Guardasigilli nella sua relazione al Re, invero, "non si tratta di applicare i comuni principi che regolano i rapporti tra la domanda e la sentenza che l'accoglie e che tendono, in sostanza, a impedire che la durata del processo arrechi pregiudizio all'attore vincitore. Si tratta, invece, di una sentenza tipicamente costitutiva, produttiva di un nuovo stato giuridico, la quale non può essere operativa che dal momento del suo passaggio in giudicato. L'unico temperamento in favore della retroattività non può essere che quello accolto dal progetto definitivo, che faceva retroagire gli effetti al momento della pubblicazione della sentenza. Il che è stato stabilito, entro giusti limiti, dal comma 2 dello stesso art. 431".