AUTORE:
Riccardo Panicci
ANNO ACCADEMICO: 2014
TIPOLOGIA: Tesi di Laurea (vecchio ordinamento)
ATENEO: Universitą degli Studi di Roma Tor Vergata
FACOLTÀ: Giurisprudenza
ABSTRACT
Il presente studio esamina l'istituto della legittima difesa accolto nella codificazione penale italiana a partire da quel tentativo di accentramento del potere impostosi in età napoleonica come alternativa all'Ancien Régime, percorrendo poi l'impegnativa fase del conseguimento dell'Unità d'Italia, approdando infine all'attuale assetto delineato dal Codice Rocco, spesso criticato, a tal punto da far proclamare la necessità di una nuova elaborazione legislativa, eppure oggi sostanzialmente in vigore malgrado il considerevole mutamento istituzionale. Non si potrà, però, prescindere dall'introdurre la concezione dell'incolpata tutela assunta nella tradizione romana, considerata fonte da cui gradualmente attingere durante il periodo barbarico e divenuta fondamento della scienza legislativa moderna, cui ha instillato una nuova tendenza alla codificazione, in seguito alla stasi riformatrice che aveva caratterizzato, nel complesso, i periodi del Medioevo e del diritto comune.
Si esamineranno, quindi, quei primi tentativi di affrancamento dalle imposizioni di assimilazione al diritto asburgico o transalpino, avutisi in Lombardia al tramonto del Settecento, che portarono, di lì a poco, alla formazione di una scienza giuridica autoctona, in grado di plasmare le coscienze civili e guidarle verso la conquista di un assetto politico unitario.
Nel fare ciò sarà seguito un andamento tendenzialmente cronologico, per individuare più agevolmente le reciproche influenze e l'evoluzione delle varie scuole del pensiero giuridico, prediligendo invece un criterio di esposizione di tipo geografico soltanto laddove possano risultare più agevoli comparazioni di natura politica o testuale.
Nella scelta dell'argomento da trattare, si è colto lo spunto dalle osservazioni di Giovanni Fiandaca ed Enzo Musco, i quali hanno ritenuto poco ponderato il parere espresso da quella parte della dottrina che, nell'immediato della riforma, aveva causticamente ravvisato nella legge 13 febbraio 2006 n. 59 un ritorno al passato del legislatore, che avrebbe deciso di riportare indietro le lancette della storia, anteponendo la salvaguardia dei beni patrimoniali addirittura al valore della vita e dell'integrità fisica di chi li aggredisce.
Ferma restando la necessità di individuare a quale preciso intervallo epocale gli autori abbiano fatto riferimento, ed ammesso che l'aspirazione al pieno rigore logico dell'ordinamento giuridico è da tutti aderita, occorre riconoscere che la storia del diritto è stata sempre caratterizzata dai riscontri induttivi dei risultati prodotti dall'applicazione delle leggi precedentemente emanate, per cui si sono viste alternare, quasi ciclicamente, soluzioni normative liberali e indulgenti a riformulazioni, all'opposto, più repressive, garantiste soprattutto dei diritti del cittadino onesto, troppo spesso vittima della stessa profusione di fiducia concessa dalla Legge ai potenziali autori dei reati.
La funzione di conservazione dell'ordine svolta in concreto dal legislatore si è sempre nutrita, paradossalmente, dei fallimenti delle norme previgenti, necessitanti un continuo raffinamento che non sarà mai del tutto compiuto in virtù della continua evoluzione della società, e potrà condurre talvolta a ravvedimenti improvvisi ed emergenziali, forse finanche temerari, agiatamente criticabili dalla penna della dottrina. La purezza della legge non si acquisisce infatti lasciandone immutata la forma, bensì riflettendo in essa, con gli adattamenti di volta in volta ritenuti idonei, le stesse aspirazioni di perfezionamento assunte dai legislatori passati. Non sempre un indurimento delle normative deve essere ritenuto stoltamente anacronistico, purché non sconfini in esacerbazioni infamanti della pena inutilmente denigratorie della sfera soggettiva del reo. Così come l'atto di munire l'individuo di parametri ben definiti di maggiore autotutela rispetto al passato recente non può essere a priori inteso come una mera sovrabbondanza legislativa, se assistito da una costante riprova dell'inefficacia deterrente la commissione di reati delle corrispondenti normative derogate o modificate.
Un'esclusiva dedizione alla coerenza interna del sistema normativo risulterebbe arida quando non rispondente alle concrete impellenze della coesistenza sociale, avvertite dal cosiddetto senso comune. Ancora, ricorrendo al sostegno di Francesco Carrara e trasponendolo al caso in questione, si potrebbe sostenere che "certe astrazioni sottili, bellissime in accademia, danno colore nebuloso ad uno statuto penale destinato a vita tutta pratica e palpitante di verità reale"; e poi dell'assenza, in un qualsiasi trattato giuridico di fine Settecento, di astrazioni dotate di una sottigliezza almeno pari a quella degli studiosi moderni - testi alla mano - è lecito dubitare.
Si esamineranno, quindi, quei primi tentativi di affrancamento dalle imposizioni di assimilazione al diritto asburgico o transalpino, avutisi in Lombardia al tramonto del Settecento, che portarono, di lì a poco, alla formazione di una scienza giuridica autoctona, in grado di plasmare le coscienze civili e guidarle verso la conquista di un assetto politico unitario.
Nel fare ciò sarà seguito un andamento tendenzialmente cronologico, per individuare più agevolmente le reciproche influenze e l'evoluzione delle varie scuole del pensiero giuridico, prediligendo invece un criterio di esposizione di tipo geografico soltanto laddove possano risultare più agevoli comparazioni di natura politica o testuale.
Nella scelta dell'argomento da trattare, si è colto lo spunto dalle osservazioni di Giovanni Fiandaca ed Enzo Musco, i quali hanno ritenuto poco ponderato il parere espresso da quella parte della dottrina che, nell'immediato della riforma, aveva causticamente ravvisato nella legge 13 febbraio 2006 n. 59 un ritorno al passato del legislatore, che avrebbe deciso di riportare indietro le lancette della storia, anteponendo la salvaguardia dei beni patrimoniali addirittura al valore della vita e dell'integrità fisica di chi li aggredisce.
Ferma restando la necessità di individuare a quale preciso intervallo epocale gli autori abbiano fatto riferimento, ed ammesso che l'aspirazione al pieno rigore logico dell'ordinamento giuridico è da tutti aderita, occorre riconoscere che la storia del diritto è stata sempre caratterizzata dai riscontri induttivi dei risultati prodotti dall'applicazione delle leggi precedentemente emanate, per cui si sono viste alternare, quasi ciclicamente, soluzioni normative liberali e indulgenti a riformulazioni, all'opposto, più repressive, garantiste soprattutto dei diritti del cittadino onesto, troppo spesso vittima della stessa profusione di fiducia concessa dalla Legge ai potenziali autori dei reati.
La funzione di conservazione dell'ordine svolta in concreto dal legislatore si è sempre nutrita, paradossalmente, dei fallimenti delle norme previgenti, necessitanti un continuo raffinamento che non sarà mai del tutto compiuto in virtù della continua evoluzione della società, e potrà condurre talvolta a ravvedimenti improvvisi ed emergenziali, forse finanche temerari, agiatamente criticabili dalla penna della dottrina. La purezza della legge non si acquisisce infatti lasciandone immutata la forma, bensì riflettendo in essa, con gli adattamenti di volta in volta ritenuti idonei, le stesse aspirazioni di perfezionamento assunte dai legislatori passati. Non sempre un indurimento delle normative deve essere ritenuto stoltamente anacronistico, purché non sconfini in esacerbazioni infamanti della pena inutilmente denigratorie della sfera soggettiva del reo. Così come l'atto di munire l'individuo di parametri ben definiti di maggiore autotutela rispetto al passato recente non può essere a priori inteso come una mera sovrabbondanza legislativa, se assistito da una costante riprova dell'inefficacia deterrente la commissione di reati delle corrispondenti normative derogate o modificate.
Un'esclusiva dedizione alla coerenza interna del sistema normativo risulterebbe arida quando non rispondente alle concrete impellenze della coesistenza sociale, avvertite dal cosiddetto senso comune. Ancora, ricorrendo al sostegno di Francesco Carrara e trasponendolo al caso in questione, si potrebbe sostenere che "certe astrazioni sottili, bellissime in accademia, danno colore nebuloso ad uno statuto penale destinato a vita tutta pratica e palpitante di verità reale"; e poi dell'assenza, in un qualsiasi trattato giuridico di fine Settecento, di astrazioni dotate di una sottigliezza almeno pari a quella degli studiosi moderni - testi alla mano - è lecito dubitare.