AUTORE:
Denise Iarussi
ANNO ACCADEMICO: 2022
TIPOLOGIA: Tesi di Laurea Magistrale
ATENEO: Universitą degli Studi di Teramo
FACOLTÀ: Giurisprudenza
ABSTRACT
Dal lavoro di tesi e dalle analisi effettuate si è cercato di fornire una panoramica esaustiva sulla giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di Giustizia in materia di libertà religiosa e nello specifico in materia di simbolismo religioso sul luogo di lavoro. In virtù del consistente numero di casi sottoposti al vaglio della Corte di Strasburgo con oggetto l’art. 9 CEDU, e delle recentissime pronunce della Corte di Lussemburgo sull’interpretazione della direttiva 2000/78/CE, è stato possibile tracciare il percorso che le ha condotte a giudicare sul medesimo tema.
Avendo funzioni e obiettivi differenti, è logico che le due Corti abbiano affrontato il nocciolo della questione da diverse prospettive e intervenendo in modo trasversalmente differente, ma ciò che qui rileva sono i punti di contatto che hanno fornito la possibilità di raffrontare le due giurisprudenze e arrivare alla conclusione su quale delle due sia più garantista verso la libertà religiosa e quale verso la libertà d’impresa del datore di lavoro. La Corte EDU si è pronunciata numerose volte in materia di simbolismo religioso esprimendosi sull’argomento maggiormente in riferimento agli spazi pubblici. La Corte EDU dichiarò inizialmente che il diritto di manifestare il proprio credo, nello specifico l’indossare i simboli religiosi negli spazi pubblici, non poteva essere limitato se non lesivo dell’ordine pubblico. Più recentemente, invece, nella sentenza S.A.S. c. Francia del 2014, la Corte ha ritenuto compatibile con l’art. 9 CEDU il divieto stabilito dalla legge francese di indossare qualunque capo di abbigliamento che copra completamente il volto, senza che questo si sia fondato sul limite dell’ordine pubblico.
La Corte ha ribadito questa posizione nella sentenza Belcacemi e Oussar c. Belgio nel 2017, affermando la conformità del divieto alla CEDU, salva l’applicazione del criterio di proporzionalità. Nonostante la Corte EDU si sia pronunciata principalmente in riferimento all’indossare simboli religiosi nel contesto appena delineato, vi sono state delle occasioni in cui questa si è espressa, in materia, con riferimento all’ambito lavorativo. Mentre nel caso Ebrahimian il settore lavorativo preso ad esame concerneva l’ambito pubblico, è nel caso Eweida che risiede il naturale termine di paragone con le ultime sentenze della CGUE in materia. Nel caso di specie una hostess di terra della British Airways fu sanzionata con l’esonero dal lavoro e la sospensione dello stipendio perché la nuova divisa scopriva la collanina con il crocifisso che aveva sempre indossato, andando così a violare la politica di neutralità che l’azienda voleva perseguire.
Questa sentenza concerne la prima e unica ipotesi di conflitto relativo all’indossare simboli religiosi all’interno di uno spazio lavorativo di natura privata ed è per questo che offre l’opportunità di confrontare l’approccio delle due corti. La Corte di giustizia interviene in materia per la prima volta, con le sentenze Achbita e Bougnaoui del 2017 e successivamente con il caso del luglio 2021. L’obiettivo perseguito è stato quello di esaminare in che modo gli interessi in gioco siano stati bilanciati tra loro e se questo sia, nella concretezza fattuale, non discriminatorio, nel quadro di un’Europa che richiede, in modo sempre più sollecito, di rispondere al bisogno di integrazione in direzione di un’uguaglianza reale e concreta.
Questo offrirà delle indicazioni sul fenomeno evolutivo europeo in materia religiosa a fronte di modelli statali già consolidati, e fornirà, quindi, un’analisi completa su una materia oggetto di grande attenzione perché sempre stata argomento trattato delle singole identità statali che per la prima volta si sono dovute interfacciare con realtà che approcciano al fenomeno religioso in modo differente.
Avendo funzioni e obiettivi differenti, è logico che le due Corti abbiano affrontato il nocciolo della questione da diverse prospettive e intervenendo in modo trasversalmente differente, ma ciò che qui rileva sono i punti di contatto che hanno fornito la possibilità di raffrontare le due giurisprudenze e arrivare alla conclusione su quale delle due sia più garantista verso la libertà religiosa e quale verso la libertà d’impresa del datore di lavoro. La Corte EDU si è pronunciata numerose volte in materia di simbolismo religioso esprimendosi sull’argomento maggiormente in riferimento agli spazi pubblici. La Corte EDU dichiarò inizialmente che il diritto di manifestare il proprio credo, nello specifico l’indossare i simboli religiosi negli spazi pubblici, non poteva essere limitato se non lesivo dell’ordine pubblico. Più recentemente, invece, nella sentenza S.A.S. c. Francia del 2014, la Corte ha ritenuto compatibile con l’art. 9 CEDU il divieto stabilito dalla legge francese di indossare qualunque capo di abbigliamento che copra completamente il volto, senza che questo si sia fondato sul limite dell’ordine pubblico.
La Corte ha ribadito questa posizione nella sentenza Belcacemi e Oussar c. Belgio nel 2017, affermando la conformità del divieto alla CEDU, salva l’applicazione del criterio di proporzionalità. Nonostante la Corte EDU si sia pronunciata principalmente in riferimento all’indossare simboli religiosi nel contesto appena delineato, vi sono state delle occasioni in cui questa si è espressa, in materia, con riferimento all’ambito lavorativo. Mentre nel caso Ebrahimian il settore lavorativo preso ad esame concerneva l’ambito pubblico, è nel caso Eweida che risiede il naturale termine di paragone con le ultime sentenze della CGUE in materia. Nel caso di specie una hostess di terra della British Airways fu sanzionata con l’esonero dal lavoro e la sospensione dello stipendio perché la nuova divisa scopriva la collanina con il crocifisso che aveva sempre indossato, andando così a violare la politica di neutralità che l’azienda voleva perseguire.
Questa sentenza concerne la prima e unica ipotesi di conflitto relativo all’indossare simboli religiosi all’interno di uno spazio lavorativo di natura privata ed è per questo che offre l’opportunità di confrontare l’approccio delle due corti. La Corte di giustizia interviene in materia per la prima volta, con le sentenze Achbita e Bougnaoui del 2017 e successivamente con il caso del luglio 2021. L’obiettivo perseguito è stato quello di esaminare in che modo gli interessi in gioco siano stati bilanciati tra loro e se questo sia, nella concretezza fattuale, non discriminatorio, nel quadro di un’Europa che richiede, in modo sempre più sollecito, di rispondere al bisogno di integrazione in direzione di un’uguaglianza reale e concreta.
Questo offrirà delle indicazioni sul fenomeno evolutivo europeo in materia religiosa a fronte di modelli statali già consolidati, e fornirà, quindi, un’analisi completa su una materia oggetto di grande attenzione perché sempre stata argomento trattato delle singole identità statali che per la prima volta si sono dovute interfacciare con realtà che approcciano al fenomeno religioso in modo differente.