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Reato continuato e reformatio in peius

Reato continuato e reformatio in peius
L'aumento della pena entro i limiti non costituisce reformatio in peius.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 27 agosto 2021, n. 32278, ha ribadito il principio per cui non viene violato il principio della reformatio in peius previsto dall'art. 597 del c.p.p. nel caso in cui il giudice della impugnazione, di fronte alla mutazione del reato continuato, apporti per uno dei fatti unificati dal medesimo disegno criminoso, una pena maggiore rispetto al primo giudice, ma non irrogando, nel complesso, una pena maggiore.

L'appello come disciplinato dall'art. 597 del c.p.p. si configura come strumento di impugnazione parzialmente devolutivo, in quanto attribuisce alla cognizione del giudice di secondo grado solo i punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti dall'appellante. Oltre a ciò il giudice dell'appello ha il potere-dovere di decidere anche in ordine ai punti della sentenza non specificamente impugnati, qualora tali punti siano comunque collegati da un rapporto di pregiudizialità, di interdipendenza o di connessione essenziale con quelli effettivamente impugnati. L'597 stabilisce, inoltre, la facoltà per il giudice dell'appello di dare al fatto una diversa e anche più grave connotazione giuridica, ma sempre senza poter violare il divieto della reformatio in peius. In particolare il giudice non potrà aumentare la pena per specie o per quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave o ancora revocare i benefici.
Nel caso in esame, la Corte d'Appello aveva assolto l'imputato per ricettazione e, in relazione al reato di detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio ex art. 73, comma 5, del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, aveva rideterminato la pena con un aumento della pena pecuniaria.
La Suprema Corte, oltre a riaffermare un principio consolidato (ex multis Cass. pen. sez. I, n. 26645 del 17 giugno 2019), ha osservato come nella fattispecie, una volta sciolto il vincolo della continuazione grazie alla pronuncia risolutoria e essendo, dunque, necessaria una rideterminazione della pena, il giudice ha la libertà di muoversi all'interno della forbice edittale del reato, con il limite dell'obbligo dell'applicazione della pena complessivamente inferiore rispetto a quella fissata dal primo giudice per il reato continuato.
Proprio in relazione alla pena pecuniaria, dunque, non può ritenersi riscontrabile la reformatio in peius nel caso in cui la pena base indicata in misura superiore a quella fissata dal giudice di primo grado con riferimento ad altro reato: la ratio risiede nella autonomia di ciascuna fattispecie e nella impossibilità di operare un confronto tra le forbici edittali delle due fattispecie. La pena detentiva, associata a quella pecuniaria, risultava essere notevolmente diminuita rispetto alla pena fissata in primo grado per il reato di ricettazione. D'altro canto la pena pecuniaria minima prevista dall'art. 73, comma 5, del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, è di molto superiore rispetto a quella prevista dal reato di ricettazione, pertanto, anche sotto questo profilo, il giudice di appello risultava essersi adeguato alla diversa forbice prevista per il reato residuato dallo scioglimento del vincolo della continuazione.
In conclusione, non può esservi reformatio in peius se il risultato finale della pena non è superiore a quello indicato dal primo giudice, neppure in relazione alla pena pecuniaria.

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