Il caso sottoposto all’esame della Cassazione ha avuto come protagonista, appunto, un infermiere, il quale era stato condannato, in primo grado, dal Tribunale di Roma, per il reato di omicidio colposo, commesso in danno di un paziente (art. 589 c.p.).
La sentenza era stata riformata in secondo grado, in quanto la Corte d’appello dichiarava l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione. Venivano, comunque confermate le statuizioni civili della sentenza di primo grado (vale a dire, il risarcimento danni in favore degli eredi della vittima).
Ritenendo la decisione ingiusta, l’infermiere decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Osservava l’imputato, in particolare, che il Tribunale di primo grado “aveva rinvenuto la sua responsabilità nel non aver allertato il medico di guardia in presenza di una crisi ipotensiva” della vittima ma che, dagli accertamenti effettuati in corso di causa, “non erano emersi elementi dimostrativi della necessità, nel pomeriggio dell'8 dicembre, di allertare un medico di guardia, in quanto le condizioni del paziente erano perfettamente compatibili con il decorso post-operatorio in atto”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle considerazioni svolte dall’infermiere, rigettando il relativo ricorso, in quanto “manifestamente infondato”.
Precisava la Cassazione, in primo luogo, che, l’infermiere riveste una “specifica posizione di garanzia nei confronti del paziente del tutto autonoma rispetto a quella del medico”, in quanto egli è dotato di una “autonoma professionalità”, svolgendo “un compito cautelare essenziale nella salvaguardia della salute dei paziente” ed “essendo onerato di vigilare sul decorso post-operatorio, proprio ai fini di consentire, nel caso, l'intervento del medico”.
Secondo la Cassazione, dunque, l’infermiere “va oggi considerato non più ‘ausiliario del medico’, ma ‘professionista sanitario’”.
Ebbene, nel caso di specie, la Cassazione rilevava come la Corte d’appello avesse, del tutto congruamente, “evidenziato le differenze esistenti” tra la condotta del medico e quella dell’infermiere, rilevando che l’imputato si era reso responsabile della “gravissima omissione di non chiamare immediatamente il medico dell'interdivisione nonostante gli episodi ipotensivi del paziente”.
Secondo la Cassazione, infatti, le crisi ipotensive, unitamente alle altre problematiche rilevate, “erano dati inequivocabilmente allarmanti che imponevano l'intervento del personale medico perché univoci nel segnalare una problematica che fuoriusciva dalle competenze degli infermieri”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’infermiere, confermando integralmente la sentenza impugnata.