La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30397 del 18 luglio 2016, ha fornito alcune interessanti precisazioni in merito al reato di l’omesso versamento dell’IVA (art. 10 ter, decreto legislativo n. 74 del 2000).
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza emessa in primo grado, aveva confermato la condanna per il reato di omesso versamento dell’IVA per l'imputato, legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, riducendone la pena.
Ritenendo la sentenza ingiusta, l’imputato presentava ricorso in Cassazione, deducendo la violazione dell’art. 10 ter del decreto legislativo n. 74 del 2000 e rilevando la “mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione” della sentenza del giudice d’appello.
Secondo il ricorrente, in particolare, il giudice di secondo grado non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 10 ter, sopra citato, in quanto nella condotta a lui imputata non sussisterebbe l’elemento soggettivo del reato, che richiede, come confermato dalla Cassazione, la “semplice coscienza e volontà di non versare all’erario l’IVA nel periodo d’imposta considerato”.
In proposito, la Corte di Cassazione rilevava come le stesse Sezioni Unite della Cassazione avessero già precisato che tale elemento soggettivo (nella specie, si parla di “dolo”), “può essere escluso nell’ipotesi in cui il mancato versamento dell’Iva dipende da impossibilità incolpevole nell’adempimento”.
Ebbene, sul punto, il giudice di secondo grado aveva ritenuto provato il dolo in capo all’imputato, dal momento che il medesimo aveva ammesso “le gravi difficoltà economiche [proprie] e della società da lui amministrata” e aveva, altresì, “tentato il risanamento aziendale, impegnando le risorse esistenti nelle operazioni commerciali previste dal piano di ristrutturazione societaria, mantenendo così la società sul mercato e pagando nel frattempo i dipendenti, scegliendo in sostanza di intraprendere le operazioni ritenute urgenti ed indilazionabili ai fini della prosecuzione dell’attività d’impresa”.
In sede di ricorso in Cassazione, inoltre, il ricorrente evidenziava come il reato in questione avrebbe dovuto considerarsi “depenalizzato per effetto di quanto disposto dall’articolo 2 della legge n. 67 del 2014”.
In base a tale disposizione, infatti, la soglia di punibilità del reato di omesso versamento dell’IVA è stata fissata in Euro 250.000, mentre, nel caso di specie, per un periodo di imposta non era stata superata, mentre per un altro periodo era stato superata di poco, con la conseguenza che “sarebbe ravvisabile la causa di non punibilità del fatto di particolare tenuità, tenuto conto delle condizioni oggettive di grave crisi e di carenza di liquidità in cui si è trovato ad operare il ricorrente e delle finalità verso cui era indirizzata la sua azione”.
La Corte di Cassazione riteneva di dover aderire solo parzialmente alle argomentazioni svolte dal ricorrente.
In particolare, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva adeguatamente motivato le ragioni per le quali aveva ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del reato in questione, dal momento che le “difficoltà economiche” addotte dall’imputato erano state definite “quali fattori esterni incidenti sulla motivazione della condotta illecita, ma inidonee ad escludere il dolo”.
Secondo la Corte d’appello, dunque, l’omesso versamento dell’IVA “era stato il risultato di una deliberata e consapevole scelta di politica aziendale, non riconducibile ad una causa di forza maggiore ex articolo 45 codice penale, difettando, nel caso di specie, la necessità assoluta di violare la legge (…) e l’imprevedibile ed improvvisa insorgenza di una situazione di radicale mancanza di liquidità alla data dell’adempimento dell’obbligazione tributaria”.
Tuttavia, secondo la Cassazione, occorreva distinguere i diversi periodi di imposta in contestazione.
Infatti, quanto ad un periodo di imposta, la sentenza di condanna andava annullata “per insussistenza del fatto”, in quanto non era stata, effettivamente, superata la soglia di punibilità prevista dall’art. 10-ter, d.lgs. n.74 del 2000 a seguito della novella introdotta con il D.Lgs. n. 158 del 2015.
Per quanto riguardava, invece, l’altro periodo di imposta in considerazione, non poteva accogliersi la richiesta avanzata dal ricorrente, in quanto, secondo la Corte di Cassazione, “non è applicabile la causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto” alla condotta di omesso versamento di IVA per un importo di poco superiore alla soglia di punibilità (…), atteso che l’eventuale particolare tenuità dell’offesa non deve essere valutata con riferimento alla sola eccedenza rispetto alla soglia di punibilità prevista dal legislatore, bensì in rapporto alla condotta nella sua interezza, avendo, dunque, riguardo all’ammontare complessivo dell’imposta non versata (…) ma anche e, soprattutto, considerando che la condotta non appare isolata, ma costituisce la reiterazione di analogo comportamento serbato in relazione al precedente periodo di imposta, ciò che esclude la sussistenza delle condizioni di applicabilità della nuova causa di non punibilità”.
Precisava la Cassazione, peraltro, come “la circostanza che il precedente periodo di imposta sia “coperto” dalla sopravvenuta modifica normativa che ha determinato l’innalzamento della soglia di punibilità, se da un lato priva la condotta di disvalore penale, dall’altro non elide la rilevanza del comportamento omissivo dell’imprenditore che resta comunque illecito”.
Alla luce di tali considerazioni, la Cassazione annullava parzialmente la sentenza di secondo grado, riducendo la pena inflitta all’imputato e rideterminandola in mesi 10 di reclusione.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza emessa in primo grado, aveva confermato la condanna per il reato di omesso versamento dell’IVA per l'imputato, legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, riducendone la pena.
Ritenendo la sentenza ingiusta, l’imputato presentava ricorso in Cassazione, deducendo la violazione dell’art. 10 ter del decreto legislativo n. 74 del 2000 e rilevando la “mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione” della sentenza del giudice d’appello.
Secondo il ricorrente, in particolare, il giudice di secondo grado non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 10 ter, sopra citato, in quanto nella condotta a lui imputata non sussisterebbe l’elemento soggettivo del reato, che richiede, come confermato dalla Cassazione, la “semplice coscienza e volontà di non versare all’erario l’IVA nel periodo d’imposta considerato”.
In proposito, la Corte di Cassazione rilevava come le stesse Sezioni Unite della Cassazione avessero già precisato che tale elemento soggettivo (nella specie, si parla di “dolo”), “può essere escluso nell’ipotesi in cui il mancato versamento dell’Iva dipende da impossibilità incolpevole nell’adempimento”.
Ebbene, sul punto, il giudice di secondo grado aveva ritenuto provato il dolo in capo all’imputato, dal momento che il medesimo aveva ammesso “le gravi difficoltà economiche [proprie] e della società da lui amministrata” e aveva, altresì, “tentato il risanamento aziendale, impegnando le risorse esistenti nelle operazioni commerciali previste dal piano di ristrutturazione societaria, mantenendo così la società sul mercato e pagando nel frattempo i dipendenti, scegliendo in sostanza di intraprendere le operazioni ritenute urgenti ed indilazionabili ai fini della prosecuzione dell’attività d’impresa”.
In sede di ricorso in Cassazione, inoltre, il ricorrente evidenziava come il reato in questione avrebbe dovuto considerarsi “depenalizzato per effetto di quanto disposto dall’articolo 2 della legge n. 67 del 2014”.
In base a tale disposizione, infatti, la soglia di punibilità del reato di omesso versamento dell’IVA è stata fissata in Euro 250.000, mentre, nel caso di specie, per un periodo di imposta non era stata superata, mentre per un altro periodo era stato superata di poco, con la conseguenza che “sarebbe ravvisabile la causa di non punibilità del fatto di particolare tenuità, tenuto conto delle condizioni oggettive di grave crisi e di carenza di liquidità in cui si è trovato ad operare il ricorrente e delle finalità verso cui era indirizzata la sua azione”.
La Corte di Cassazione riteneva di dover aderire solo parzialmente alle argomentazioni svolte dal ricorrente.
In particolare, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva adeguatamente motivato le ragioni per le quali aveva ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del reato in questione, dal momento che le “difficoltà economiche” addotte dall’imputato erano state definite “quali fattori esterni incidenti sulla motivazione della condotta illecita, ma inidonee ad escludere il dolo”.
Secondo la Corte d’appello, dunque, l’omesso versamento dell’IVA “era stato il risultato di una deliberata e consapevole scelta di politica aziendale, non riconducibile ad una causa di forza maggiore ex articolo 45 codice penale, difettando, nel caso di specie, la necessità assoluta di violare la legge (…) e l’imprevedibile ed improvvisa insorgenza di una situazione di radicale mancanza di liquidità alla data dell’adempimento dell’obbligazione tributaria”.
Tuttavia, secondo la Cassazione, occorreva distinguere i diversi periodi di imposta in contestazione.
Infatti, quanto ad un periodo di imposta, la sentenza di condanna andava annullata “per insussistenza del fatto”, in quanto non era stata, effettivamente, superata la soglia di punibilità prevista dall’art. 10-ter, d.lgs. n.74 del 2000 a seguito della novella introdotta con il D.Lgs. n. 158 del 2015.
Per quanto riguardava, invece, l’altro periodo di imposta in considerazione, non poteva accogliersi la richiesta avanzata dal ricorrente, in quanto, secondo la Corte di Cassazione, “non è applicabile la causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto” alla condotta di omesso versamento di IVA per un importo di poco superiore alla soglia di punibilità (…), atteso che l’eventuale particolare tenuità dell’offesa non deve essere valutata con riferimento alla sola eccedenza rispetto alla soglia di punibilità prevista dal legislatore, bensì in rapporto alla condotta nella sua interezza, avendo, dunque, riguardo all’ammontare complessivo dell’imposta non versata (…) ma anche e, soprattutto, considerando che la condotta non appare isolata, ma costituisce la reiterazione di analogo comportamento serbato in relazione al precedente periodo di imposta, ciò che esclude la sussistenza delle condizioni di applicabilità della nuova causa di non punibilità”.
Precisava la Cassazione, peraltro, come “la circostanza che il precedente periodo di imposta sia “coperto” dalla sopravvenuta modifica normativa che ha determinato l’innalzamento della soglia di punibilità, se da un lato priva la condotta di disvalore penale, dall’altro non elide la rilevanza del comportamento omissivo dell’imprenditore che resta comunque illecito”.
Alla luce di tali considerazioni, la Cassazione annullava parzialmente la sentenza di secondo grado, riducendo la pena inflitta all’imputato e rideterminandola in mesi 10 di reclusione.