Con una storica pronuncia (numero 8 del 25 maggio 2021), L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a dirimere l’annoso e controverso dibattito circa la natura giuridica del “commissario ad acta” e gli effetti della sua nomina sul c.d. potere amministrativo.
Prima di entrare in media res, è noto che il meccanismo logico-giuridico di produzione degli atti della pubblica amministrazione si fonda sullo schema logico: norma – potere – effetto. In particolare, in omaggio al principio di legalità, la legge attribuisce alla P.A. il potere amministrativo di curare e perseguire l’interesse pubblico. Tale potere si esercita tendenzialmente con provvedimenti amministrativi unilaterali (ma sono frequenti ormai le forme consensuali di esercizio del potere). Un provvedimento o un atto amministrativo emanato in assenza della norma o, in casi particolari, in presenza di un potere consumato, determina la patologia della nullità per difetto assoluto di attribuzione. L’analisi dello schema sillogistico pocanzi presentato consentirà di meglio comprendere il problema dell’”esaurimento del potere” all’atto di insediamento del commissario ad acta, affrontato dalla Adunanza Plenaria.
Segnatamente, circa la natura giuridica di quest’organo, la Plenaria ha riconosciuto la sua funzione ex art. 21 del codice proc. amministrativo di esclusivo ausiliario del giudice, il quale procede alla sua nomina laddove debba sostituirsi all’amministrazione nell’ambito della propria giurisdizione, così come definita dalle norme che la attribuiscono. Il commissario ad acta svolge, difatti, compiti ausiliari del giudice dopo la decisione, quando la stessa non sia eseguita dalla PA e la tutela della parte vincitrice del giudizio di cognizione richieda necessariamente un’attività di questa.
Il potere del commissario ad acta nell’adozione di atti e provvedimenti si distingue da quello della PA in quanto trova il proprio fondamento genetico non nella legge, ma nella sentenza del giudice, e la propria giustificazione sul piano funzionale non nel perseguimento del pubblico interesse, bensì nella necessità di assicurare pienezza ed effettività alla tutela giurisdizionale già riconosciuta alla situazione soggettiva per la quale si è agito in giudizio, in attuazione dell’art. 24 Cost..
Gli effetti che si imputano all’amministrazione non dipendono da una “sostituzione” nell’esercizio di poteri a questa attribuiti e da essa autonomamente esercitabili, né tantomeno ricorre un’ipotesi di trasferimento dei poteri medesimi dall’amministrazione al commissario, ma essi derivano direttamente dalla pronuncia del giudice, la quale, avendo per oggetto atti amministrativi o l’esercizio in fieri di poteri provvedimentali, non può attuarsi se non attraverso l’adozione di atti o provvedimenti. In tal senso il commissario esercita un potere “analogo ma non identico” a quello della pubblica amministrazione. Da tale premessa deriva innanzitutto che gli atti adottati dal commissario, non essendo espressione di potere amministrativo, non sono annullabili dalla P.A. in autotutela, ma quest’ultima, ove intenda dolersene, dovrà rivolgersi al giudice attraverso il reclamo ex artt. 114, co. 6 o 117, co. 4.
In secondo luogo, la Plenaria riconosce che l’insediamento del commissario ad acta non comporta l’esaurimento del potere della P.A. a provvedere, il cui schema logico rimane dunque quello norma – potere – effetto. A tale uopo, va riconosciuta l’ammissibilità della concorrenza della competenza commissariale con quella della P.A., la quale ha termine allorché uno dei due soggetti dia attuazione alla decisione del giudice. Qualora il commissario ad acta adotti atti dopo che la P.A. abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione (o viceversa), gli stessi sono da considerarsi inefficaci, e ove necessario la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell’ottemperanza o del silenzio
Prima di entrare in media res, è noto che il meccanismo logico-giuridico di produzione degli atti della pubblica amministrazione si fonda sullo schema logico: norma – potere – effetto. In particolare, in omaggio al principio di legalità, la legge attribuisce alla P.A. il potere amministrativo di curare e perseguire l’interesse pubblico. Tale potere si esercita tendenzialmente con provvedimenti amministrativi unilaterali (ma sono frequenti ormai le forme consensuali di esercizio del potere). Un provvedimento o un atto amministrativo emanato in assenza della norma o, in casi particolari, in presenza di un potere consumato, determina la patologia della nullità per difetto assoluto di attribuzione. L’analisi dello schema sillogistico pocanzi presentato consentirà di meglio comprendere il problema dell’”esaurimento del potere” all’atto di insediamento del commissario ad acta, affrontato dalla Adunanza Plenaria.
Segnatamente, circa la natura giuridica di quest’organo, la Plenaria ha riconosciuto la sua funzione ex art. 21 del codice proc. amministrativo di esclusivo ausiliario del giudice, il quale procede alla sua nomina laddove debba sostituirsi all’amministrazione nell’ambito della propria giurisdizione, così come definita dalle norme che la attribuiscono. Il commissario ad acta svolge, difatti, compiti ausiliari del giudice dopo la decisione, quando la stessa non sia eseguita dalla PA e la tutela della parte vincitrice del giudizio di cognizione richieda necessariamente un’attività di questa.
Il potere del commissario ad acta nell’adozione di atti e provvedimenti si distingue da quello della PA in quanto trova il proprio fondamento genetico non nella legge, ma nella sentenza del giudice, e la propria giustificazione sul piano funzionale non nel perseguimento del pubblico interesse, bensì nella necessità di assicurare pienezza ed effettività alla tutela giurisdizionale già riconosciuta alla situazione soggettiva per la quale si è agito in giudizio, in attuazione dell’art. 24 Cost..
Gli effetti che si imputano all’amministrazione non dipendono da una “sostituzione” nell’esercizio di poteri a questa attribuiti e da essa autonomamente esercitabili, né tantomeno ricorre un’ipotesi di trasferimento dei poteri medesimi dall’amministrazione al commissario, ma essi derivano direttamente dalla pronuncia del giudice, la quale, avendo per oggetto atti amministrativi o l’esercizio in fieri di poteri provvedimentali, non può attuarsi se non attraverso l’adozione di atti o provvedimenti. In tal senso il commissario esercita un potere “analogo ma non identico” a quello della pubblica amministrazione. Da tale premessa deriva innanzitutto che gli atti adottati dal commissario, non essendo espressione di potere amministrativo, non sono annullabili dalla P.A. in autotutela, ma quest’ultima, ove intenda dolersene, dovrà rivolgersi al giudice attraverso il reclamo ex artt. 114, co. 6 o 117, co. 4.
In secondo luogo, la Plenaria riconosce che l’insediamento del commissario ad acta non comporta l’esaurimento del potere della P.A. a provvedere, il cui schema logico rimane dunque quello norma – potere – effetto. A tale uopo, va riconosciuta l’ammissibilità della concorrenza della competenza commissariale con quella della P.A., la quale ha termine allorché uno dei due soggetti dia attuazione alla decisione del giudice. Qualora il commissario ad acta adotti atti dopo che la P.A. abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione (o viceversa), gli stessi sono da considerarsi inefficaci, e ove necessario la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell’ottemperanza o del silenzio