Tanto vale, a detta degli Ermellini, anche nel caso in cui il figlio, una volta raggiunta l’indipendenza economica grazie ad un’occupazione lavorativa, vi rinunci al fine di riprendere gli studi e impegnarsi attivamente nell’ottica di completare la propria formazione e di trovare poi un impiego più confacente alle proprie aspirazioni.
In tal caso, infatti, la Corte afferma che si deve ripristinare l’obbligo al mantenimento, salvo che
a) l’occupazione abbandonata non fosse già compatibile con le aspirazioni professionali del figlio;
b) il comportamento di questo non appaia sintomo di un ingiustificato rifiuto di rendersi economicamente indipendente.
La Corte, pertanto, assegna primaria importanza alle aspirazioni del figlio. Si legge, infatti, nella motivazione della citata sentenza che “è compito dei genitori di assecondare, per quanto possibile, le inclinazioni naturali e le aspirazioni del figlio, consentendogli di orientare la sua istruzione in conformità dei suoi interessi e di cercare un'occupazione appropriata al suo livello sociale e culturale, anche mediante la somministrazione dei mezzi economici a tal fine necessari, senza forzarlo ad accettare soluzioni indesiderate”.
A questi riguardi, è utile fornire una breve panoramica del quadro normativo di riferimento.
Ebbene, in via generale, l’obbligo di mantenere, istruire ed educare i figli è previsto dall’art. 30 Cost. nonché dall’art. 143 ss. c.c. Tale obbligo – espressione del dovere di solidarietà – deve essere adempiuto dai genitori in proporzione delle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.
In particolare, l’obbligo di mantenimento nei confronti del figlio maggiorenne è previsto dall’art. 337 septies c.c., secondo il quale il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico, il quale è versato direttamente all’avente diritto.
Da tale dato normativo emerge che, a differenza di quanto previsto in relazione al figlio minore, si desume che non esiste un diritto soggettivo perfetto del figlio maggiorenne a farsi mantenere dai genitori sine die: il giudice, infatti, può disporre l’assegno valutate le circostanze.
Per tale ragione, le circostanze del caso concreto assumono sempre importanza cruciale.
È utile allora sottolineare che la fattispecie all’attenzione della Corte riguardava una ragazza ancora di giovane età (nello specifico ventiseienne), la quale aveva svolto per un brevissimo periodo di tempo un'attività lavorativa del tutto estranea alle sue aspirazioni professionali e l’aveva poi abbandonata per la volontà di riprendere gli studi universitari di psicologia. Ciò considerato, allora, la Suprema Corte – escluso un atteggiamento inerziale e parassitario della ragazza - ha confermato la sentenza di secondo grado che riconosceva il diritto questa all’assegno di mantenimento.